Quando è stata firmata la convenzione quadro dell'Onu sui cambiamenti climatici (1992) e sono iniziate tre anni dopo le conferenze sul clima (Berlino 1995) i cambiamenti climatici erano una minaccia futura, da evitare e prevenire. Quasi trent'anni dopo, è diventata una crisi globale da declinare al presente: è per questo motivo che il tema è progressivamente passato da come prevenirli a come affrontarli. E come affrontarli è un problema di risorse finanziarie.

È per questo motivo che a COP27 si parla di soldi molto più che di transizione dei sistemi energetici, dei trasporti, dell'industria del cibo. La giustizia climatica è giustizia finanziaria: la questione morale del clima funziona così. Senza giustizia finanziaria non ci sono diritti umani. La linea dell'acqua che sale si governa così.

Narrativa

C'è una rivolta - sempre meno sotto traccia - contro le grandi istituzioni finanziarie. È un cambio di narrativa, era chiaro già nelle parole della premier di Barbados Mia Mottley: se a Glasgow l'avversario erano le multinazionali dei combustibili fossili, qui sono istituzioni «inaccessibili, ostili e oppressive» come Fondo monetario internazionale o Banca mondiale. Sono parole di Eddie Perez, responsabile diplomazia climatica di Climate Action Network, che ha dato carne e sostanza al patto climatico di solidarietà invocato ieri dal segretario generale delle Nazioni Unite Guterres: «I conti della crisi climatica sono salati, qui cerchiamo speranza per salvare vite, ospedali, case e turismo, servono soldi per farlo». Quanti e da chi è il tema di questa COP.

La storia che ha cambiato definitivamente la narrativa sul loss and damage, «il conto salato e presente della crisi», è quella del Pakistan devastato dal monsone poco più di un mese fa: milioni di sfollati e miliardi di dollari di danni e perdite.

Tutto questo accade al presente e deve essere risolto al presente. Non c'è più niente di remoto o futuro nella crisi climatica. Tra Glasgow e Sharm sono cambiati i tempi verbali del clima, non più «cosa sarà» ma «cosa è». Perez ha spiegato che non ci sarà nessun testo finale concordato qui a COP27 se non ci sarà un accordo per moltiplicare i flussi finanziari e cambiarne la natura - slegandoli il più possibile dal debito ed «evitando che diventino sussidi per l'industria assicurativa del nord del mondo». E non ci sarà accordo senza una struttura che diventi in grado di erogare fondi per loss and damage già dal 2024. Il tema è entrato in agenda per la prima volta nella storia di una COP, con una deadline fissata tra due anni.

Come ci si arriva? Secondo Nafkote Dabi, policy lead di Oxfam, non si può arrivare a rispettare quella deadline se la struttura e il meccanismo non vengono messi a punto già in questa COP, con delle funzioni precise e specifiche su come raccogliere e come indirizzare i fondi.

A COP28, il prossimo anno, questa struttura deve aver individuato anche un flusso di consegna dei fondi.A COP29 deve essere finalizzata e pienamente operativa.

Se non avranno questo tipo di rassicurazioni ufficiali, i rappresentanti politici del blocco di oltre 130 paesi in via di sviluppo faranno saltare tutto il processo già da Sharm El Sheikh.

Il simbolo tossico

Si respira una forte insofferenza politica in questa COP27, un'atmosfera dove la rabbia ha preso il posto della speranza che si respirava a Glasgow. Il feticcio e l'oggetto simbolo di questa rabbia sono i 100 miliardi l'anno di aiuti promessi già dal 2009 (COP15) da Stati Uniti, Europa, Australia, Canada, Giappone ai paesi in via di sviluppo. Sono arrivati molto lentamente, praticamente sgocciolando, mai del tutto, «come beneficenza» e sotto forma di prestiti. Ormai sono considerati una distrazione tossica, non solo perché mancano ancora 17 miliardi a questa colletta, ma perché la colletta in sé è del tutto insufficiente per un problema che nel frattempo è arrivato alla scala dei triliardi, 2mila miliardi di dollari all'anno già dal 2030, secondo uno studio commissionato dai governi britannico e dell'Egitto e presentato qui.

È con questo che ci stiamo confrontando.

E questi dati offrono una prospettiva diversa anche al risalto dato dal governo italiano al fondo italiano per il clima, che triplica gli investimenti, è vero, ma da una base insufficiente e rimanendo lontanissimo non solo alla scala necessaria per recuperare fiducia tra i blocchi ma anche rispetto alle promesse fatte in passato.

© Riproduzione riservata