«Abbiamo perso tutto il raccolto». Nicola Servadei è un giovane agricoltore di Faenza, cittadina nel cuore di uno dei principali distretti frutticoli del paese.

Quest’anno, a causa di una serie di gelate tardive, tutta la sua produzione di albicocche è andata persa. Un destino che ha colpito l’intero comparto.

A livello europeo, come testimoniato dai dati del Centro servizi ortofrutticoli (Cso), l’andamento climatico ha infatti causato la riduzione del 37 per cento dei volumi rispetto all’anno precedente. Percentuale che in Italia è arrivata alla metà della produzione con picchi del 100 per cento in Emilia-Romagna, dove Nicola coltiva le sue albicocche. «Usciamo da un anno a incasso zero», continua Servadei aggiungendo con un sorriso amaro che «anche quest’anno l’annata migliore sarà la prossima».

Il freddo che fa bene

Nicola conosce le fatiche dell’agricoltura, le ha viste nelle rughe dei nonni e nelle mani callose del padre, e da quando ha preso in mano le redini dell’azienda per ridarle slancio, le sperimenta in prima persona. Con l’aggravio di un monte di carte da compilare, certificazioni, commercialisti da consultare e di quel pensiero che ora lo preoccupa più della burocrazia: la crisi climatica.

«Negli ultimi anni la variabilità del clima ha cambiato tutto e non sappiamo più cosa aspettarci per l’anno successivo. Ormai abbiamo inverni caldi e primavere in cui fa più freddo, arrivano gelate tardive e non possiamo farci nulla». Il risultato è che l’intero settore è andato al collasso.

«Il problema non sono solo le gelate», ci tiene a precisare Maurizio Iacona, ricercatore dell’Università di Pisa che da anni studia e monitora le variazioni che le piante di albicocca subiscono a causa dei cambiamenti climatici. «Già prima dell’evento estremo le fioriture meno abbondanti del solito annunciavano un raccolto inferiore al 2019. Il motivo è che c’è stato un inverno caldo, che non ha permesso alle piante di prendere la giusta quantità di freddo».

Perché in inverno la pianta va in “letargo”, le foglie cadono e le gemme, che poi daranno i frutti, raccolgono le forze per la schiusura primaverile. In questo periodo, apparentemente inattivo, gli alberi hanno bisogno di accumulare una certa quantità di freddo.

La “dose” necessaria varia da specie a specie, perché ogni pianta si è evoluta per sopravvivere in uno specifico ambiente. Gli albicocchi, originari della parte nord-orientale della Cina, nel corso dei millenni si sono adattati a climi rigidi, che oggi in Italia sono più rari. Così le piante non accumulano tutto il freddo necessario e la riproduzione ne risente. Esattamente ciò che è successo agli albicocchi in questi anni: hanno “dormito male” e si sono svegliati troppo deboli per fare i frutti.

L’allarme per questa insonnia sempre più diffusa nei frutteti è stato lanciato a Colignola: il campo sperimentale dell’Università di Pisa si trova ai piedi dei monti pisani, a pochi chilometri dalla torre pendente, dove si estende una vasta pianura coltivata con un centinaio di varietà di albicocco. Ciascun albero, posizionato e classificato in maniera ordinata, è stato monitorato, osservato, studiato in ogni fase della crescita, da quando germoglia alla fioritura. Ed è proprio nella fioritura che i ricercatori hanno riscontrato delle anomalie.

Frutti della scienza

«Abbiamo osservato quello che èsotto gli occhi di tutti: i cambiamenti climatici ci sono e gli effetti si vedono», dice Susanna Bartolini, ricercatrice che proprio sul quel campo sperimentale ha condotto le sue analisi, pubblicando i dati sulla rivista Scientia Horticulturae. I suoi studi sono la fotografia forse più efficace per spiegare quello che sta accadendo a livello globale, quali effetti hanno i cambiamenti climatici sulle produzioni agricole e, in definitiva, su ciò che finisce nei nostri piatti.

«Quello che è accaduto è drammaticamente semplice», osserva Bartolini. «A partire dagli anni Novanta, la temperatura media è aumentata e le piantagioni ne hanno sofferto».

I dati dello studio parlano chiaro: la fioritura è diminuita del 50 per cento e di conseguenza anche la produzione di frutti. «Le piante sono organismi complessi e allo stesso tempo semplici», spiega Iacona. «La fioritura è uno degli indicatori migliori per capire i cambiamenti climatici, perché le variazioni dell’ambiente esterno influenzano le fasi di crescita della pianta, proprio a partire dalla capacità di andare a fiore».

Cosa accadrà alle colture di albicocco è presto per dirlo. Probabilmente sarà necessario, come ipotizzato dallo studio dell’ateneo pisano, spostare la coltivazione di alcune varietà più a nord o individuare nuove varietà capaci di adattarsi a un clima mutato.

Una cosa è certa: le piante selezionate in maniera naturale nell’università toscana fanno sempre più fatica a dare i loro frutti e questo mette a rischio non solo un patrimonio incredibile di biodiversità, ma la ricerca stessa: gli studenti non possono portare avanti le loro tesi, mentre i ricercatori non possono lavorare sul miglioramento genetico, gli innesti e le nuove varietà più resistenti al cambiamento climatico. Un armageddon della scienza, già alle prese con il taglio dei fondi.

«Insomma – conclude Iacona – le piante ci stanno dicendo che qualcosa sta cambiando, anzi è già cambiato.

Forse i consumatori non se ne accorgeranno perché continueranno a trovare albicocche sugli scaffali dei supermercati che arrivano dall’altra parte del mondo, ma il problema è serio e sarebbe ora di rendersene conto». Per ora a farne le spese sono gli agricoltori come Nicola, la cui unica speranza è che finalmente «almeno questo sia un inverno vero».

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