C’è un problema con la conservazione. È da questa considerazione che parte “Our land, our nature”, il primo congresso al mondo per decolonizzare la conservazione, tenutosi a inizio settembre in partnership con Survival International, Rainforest Foundation UK e altri. Il congresso ha rivelato le debolezze negli approcci alla conservazione che nella maggior parte dei casi, per salvaguardare “la natura”, danneggiano le vite e ledono i diritti dei “migliori guardiani del mondo naturale”, i popoli indigeni. Ho parlato con uno degli ospiti del Congresso, Mordecai Ogada, un biologo della fauna selvatica dal Kenya e direttore di Conservation Solutions Afrika, un’organizzazione che lavora per l’educazione alla conservazione e lo sviluppo di gestione ambientale.

Cosa significa “decolonizzare la conservazione”?

Il modo in cui pratichiamo la conservazione ora è costruito attorno a strutture che sono state create dai governi coloniali. Quello che li precedeva era un’etica che esisteva, che ancora esiste, tra i popoli indigeni che coabitano con la fauna selvatica, e non sono separati dalle aree naturali. Non abbiamo cercato di separare le persone dalla fauna perché era un ambiente condiviso. Quello che abbiamo ora è che alcune aree sono messe da parte per i parchi nazionali – che vengono chiamati aree protette – e agli abitanti non è permesso andarci. L’umanità è sempre stata parte della natura qui, e quello che stiamo facendo ora, come conservazione, che separa l’umanità dalla natura viene dalla cultura coloniale. E dobbiamo sbarazzarci di questo tipo di pensiero.

Durante la conferenza ha parlato di aree protette e di come il termine sia rappresentativo di uno strumento primitivo. Può spiegare perché?

Penso che non si possa più applicare. Le aree protette in tutto il mondo sono un prodotto di violenza. Se pensate a Yellowstone negli Stati Uniti, i nativi americani sono stati rimossi con violenza. La stessa cosa vale per il Serengeti in Tanzania, il Tsavo in Kenya, in tutti questi luoghi è stata usata la violenza per rimuovere le persone. Quindi, per quanto siano belli, non dobbiamo mai dimenticarlo. Dobbiamo capire che non possiamo più farlo, perché conosciamo i diritti umani. Ora sappiamo che la violenza è sbagliata. Sappiamo che lo spostamento forzato è sbagliato. E sappiamo che questo creerà solo ciò che io chiamo i “rifugiati della conservazione”.

Qual è secondo lei il modo migliore per proteggere le specie senza dover chiudere intere aree geografiche e “recintare” le terre?

Prima di tutto, dobbiamo partire dal presupposto che sono già protette, in molte parti del Kenya, per esempio, troverete persone che vivono lì insieme agli elefanti e dobbiamo comprendere che c’è già un equilibrio che sta proteggendo l’elefante. E nel momento in cui un’organizzazione, un ente esterno arriva in un luogo con un piano per proteggere qualcosa che già lì è protetto, stanno già partendo da un presupposto fallace. Quindi penso che abbiamo bisogno di studiare quali sono i mezzi di sussistenza e i sistemi di produzione che le persone stanno praticando e che permettono loro di vivere con la fauna selvatica. E una volta che abbiamo studiato e capito questo, allora possiamo lavorare su come rendere quei sistemi di produzione più sostenibili. Bisogna applicare competenze e conoscenze, non soluzioni militari.

Può parlare della differenza tra il significato di conservazione nel mondo occidentale e quello nel Sud globale e in particolare in Africa?

In Occidente, la pratica della conservazione è paranoica e violenta. Il modello di conservazione occidentale è un modello che non può coesistere con la natura. L’animale selvatico deve essere acquisito in qualche modo. Deve essere catturato e messo in uno zoo. Deve essere recintato in un parco, o deve essere cacciato per sport. Di nuovo, posso parlare del Kenya. Noi rispettiamo la fauna selvatica. Gli diamo spazio. A volte c’è un conflitto, ma veneriamo la fauna selvatica. Non uccidiamo la fauna selvatica per sport. Penso che la conservazione abbia bisogno di avere più sociologi, antropologi, esperti delle scienze umane per portare questo pensiero nella conservazione. Inoltre, in Africa, spesso tutto è militarizzato. Non possiamo applicare un modello che è stato sviluppato a Yellowstone negli Stati Uniti nel 1872 e applicarlo oggi in Africa.

Pensa che le pratiche di conservazione in Africa siano razziste?

Sì, assolutamente. Questo perché le persone che le hanno sviluppate sono occidentali bianchi che hanno imposto questa narrazione. C’è questo romanticismo sulla conservazione che è legato al fascino dell’uomo bianco che incontra i grandi animali in Africa. E l’intera narrazione non include i neri. Si basa su un immaginario. E il problema è che gli scienziati, specialmente in Africa, hanno seguito l’immaginario invece di guidare la conservazione .

C’è anche violenza? Le persone locali e le comunità indigene vengono cacciate per “proteggere” le terre?

Sì, c’è violenza vera e propria ed è per questo che dobbiamo cambiare le cose. Se qualcuno andasse in Africa e decidesse di violare e sfrattare la gente per fare una fabbrica o una coltivazione di caffè, nessuno lo accetterebbe. I difensori dei diritti umani accuserebbero subito quel qualcuno. Andrebbe in prigione, sarebbe denunciato. Ma se vai a sfrattare violentemente le persone per la conservazione, vieni lodato. Quindi questo è il problema, che la conservazione è tenuta ad uno standard etico diverso da tutto il resto. Se non possiamo includere la dimensione umana nel lavoro di conservazione, allora è completamente inutile. È socialmente insostenibile, politicamente insostenibile. E diventa una violazione di molti, molti diritti umani. Ma ciò che è positivo è che la conversazione su questo sta cambiando, ma c’è ancora molto lavoro da fare.

C’è un problema nel modo in cui i media del mondo occidentale rappresentano la conservazione?

Sì…c’è molta violenza nel linguaggio. Per esempio, i bianchi sono chiamati cacciatori, i neri bracconieri. I media devono essere richiamati su cose come questa. E l’altra cosa sono i film, la Tv, i documentari, ecc. Se si mostra un film sulla Cina senza cinesi, è una violenza. Stessa cosa vale per un film sull’Italia senza italiani. Ma in qualche modo, è accettabile mostrare tutti questi film sull’Africa senza africani. E i media stanno effettivamente spingendo la narrazione violenta. Costantemente le persone locali in Africa sono trattate come intrusi in casa loro. E il più grande problema è che questo fa sì che la gente si rivolti contro la fauna selvatica perché in questo momento, un africano che ha elefanti che vivono vicino a casa sua è molto insicuro, non a causa degli elefanti, ma a causa dei conservazionisti. Potrebbe essere cacciato per fare una riserva di elefanti o infastidito con il sospetto di bracconaggio se un elefante muore vicino a casa sua. La narrazione deve cambiare, e i media sono tra i colpevoli.

C’è questa idea che viene dal dualismo che gli esseri umani sono separati dalla natura, che la natura è percepita come qualcosa di esterno. Piuttosto che considerare gli esseri umani come parte di essa, parte della biosfera.

Penso che questo sia un punto molto importante perché, per esempio, gli africani rurali bevono l’acqua dal fiume vicino e prendono la legna dalla foresta vicina e allevano gli animali in un posto vicino. In Occidente la maggior parte delle persone non ha idea di dove viene l’acqua che beve. È un esempio, ma penso che questo sia anche ciò che costruisce questo dualismo.

Come si inseriscono i problemi del cambiamento climatico nell’idea di una conservazione decolonizzata?

Prima di tutto, penso che il cambiamento climatico sia un problema molto serio…Ma non possiamo spostare la responsabilità da una parte all’altra del mondo. Il Kenya non ha lo stesso livello di responsabilità degli Stati Uniti, giusto? Non si può mitigare l’inquinamento in Europa, per esempio, facendo qualche azione in Africa. Quindi il cambiamento climatico è un problema importante. È una crisi, direi. Ma il modo in cui lo stiamo affrontando ora non è costruttivo…Abbiamo bisogno di avere le persone giuste per guidare questa faccenda. Non dovrebbe essere una questione politica. È una questione scientifica, ambientale e sociale, ma abbiamo lasciato che la politica prendesse il comando e questo è ciò che crea danni.

© Riproduzione riservata