«L'obiettivo di contenere l'aumento delle temperature a 1.5° C è in terapia intensiva. Per portarlo fuori da lì e dargli una possibilità di combattere nei prossimi giorni servirà tutta la leadership di Stati Uniti ed Europa e quella leadership passa dalla finanza».

Sintetizza così la situazione Alden Meyer del think tank E3G, che di Cop ne ha seguite venticinque su ventisei. Non c'è azione per il clima senza una montagna di soldi da mettere sul piatto, per sbloccare il negoziato e navigare la crisi.

Non basteranno le pur importanti vittorie politiche che si possono celebrare oggi dopo aver letto la prima bozza di dichiarazione finale della Cop26, arrivata all'alba e frutto di un negoziato durissimo tra gli sherpa dei 197 paesi del vertice, che hanno lavorato tutta la notte (e così faranno le prossime) per salvare la «disperata speranza» di attenuare la crisi climatica.

La bozza è il testo messo appunto dai negoziatori, arrivato in ritardo di due giorni rispetto alla tabella di marcia perché ai tavoli si sta litigando parecchio e su tutto. Ora sarà presentato a ministri, leader e governi: da qui alla fine ufficiale (12 novembre) e ufficiosa (si parla di domenica 14) di Cop26 entra in gioco la politica e allora può succedere davvero ogni cosa.

La bozza va considerata una mappa delle posizioni di partenza dei vari blocchi, con tutti gli intrecci di linee rosse e punti di rottura. Il testo può cambiare, deve migliorare, ma può anche peggiorare.

La buona notizia

(AP Photo/Alberto Pezzali)

La buona notizia è che - per quanto possa sembrare strano - è la prima volta che in una conferenza sui cambiamenti climatici si menzionano le fonti fossili di energia: il testo fa riferimento all'uscita dal carbone e alla fine dei sussidi a tutte le altre fonti (quindi gas e petrolio). È solo un «calls for», un invito, senza una tempistica precisa, ma è comunque un passaggio storico, perché nemmeno nell'accordo di Parigi si parlava di fossili.

«Ci sarà da combattere su questo punto nei prossimi tre giorni, perché l'Arabia Saudita farà di tutto per eliminare quel riferimento, dall'altra parte ci sono le isole e i paesi vulnerabili, che stanno lottando per la propria vita, e quella sopravvivenza passa dal limitare l'aumento della temperatura», commenta Jennifer Morgan, direttrice esecutiva di Greenpeace International. Ogni decimo di aumento del riscaldamento vuol dire morte e danni per loro.

La Cina sta frenando sul punto per lei più problematico: la trasparenza nella contabilità delle emissioni, dopo aver ignorato l’alleanza per smettere di usare il carbone e aver presentato un piano debolissimo per il 2030. In mezzo ci sono i paesi che sarebbero in teoria leader di tutto il processo (Usa ed europei) e che non riescono a guidarlo.

Il loro gap di credibilità è stato aggravato da tante cose ma da una in particolare: la riluttanza a mantenere le promesse sui soldi. Dal 2009 il blocco dei paesi ricchi aveva annunciato, per bocca di Barack Obama, un primo fiume di aiuti, 100 miliardi di dollari all'anno che nel frattempo non si sono mai del tutto concretizzati (siamo saliti con fatica a 80 quest'anno) e che sono diventati un totem alla sfiducia nei confronti dell'occidente e dei suoi impegni mancati. Una nuvola che grava su tutto il negoziato.

«I paesi vulnerabili stanno affrontando due emergenze: pandemia e clima. Non hanno più tempo, per questo motivo hanno fatto fronte comune e hanno anche aggirato la Cina, che non rappresenta più i loro interessi», commenta Mauro Albrizio, direttore dell’ufficio europeo di Legambiente. Parlano di nuovo con gli americani e gli europei direttamente e quello che chiedono è aiuto economico.

Il ruolo della finanza

(AP Photo/Alberto Pezzali)

La partita verso la chiusura di Cop26 si è spostata tutta sulla finanza. Senza fondi non si può uscire dal carbone, non si possono costruire nuove infrastrutture per l'adattamento al nuovo clima, non si aumenta la produzione di energia pulita, non si riparano i danni che uragani, alluvioni e siccità stanno già facendo, non si curano le perdite e non c'è futuro.

Il primo ad afferrare la questione era stato Mario Draghi al World Leaders Summit all'inizio della Cop, quando aveva parlato di trasformare i miliardi in triliardi, anche con l'aiuto della finanza privata.

Per il prossimo quinquennio di azione per il clima il variegato fronte di 120 paesi tra africani, isole, latinoamericani e l'alleanza dei 48 più poveri di tutti ha calcolato che la colletta di 100 miliardi ancora non arrivati non basterà comunque: la bozza che gira sui tavoli negoziali parla di 1300 miliardi da distribuire globalmente in cinque anni tra il 2025 e il 2030 per la mitigazione (cioè la conversione delle loro economie) e l'adattamento, di cui un decimo a fondo perduto.

A questi vanno aggiunti i costi per i danni e le perdite della crisi: è la nuova grande battaglia diplomatica dei paesi che annegano: farsi pagare per i costi che devono sostenere ogni volta che un uragano o un'onda di siccità li colpisce. Il tema loss & damage ha ricevuto un primo riconoscimento nella bozza. Non è niente di operativo, non ci sono tempi né numeri, ma anche questa è una prima volta.

La quantificazione l'hanno fatta i paesi vulnerabili: da 290 a 580 miliardi di dollari all'anno, da sommare a tutti gli altri e da finanziare - propongono - con quote dai mercati di carbonio e dalle tasse sulle transazioni finanziarie.  

«Per essere all'altezza di una sfida del genere serve una riforma dell'architettura finanziaria globale»; commenta Luca Bergamaschi del think tank Ecco. C'è da intervenire sulla quantità di soldi che possono essere gestiti, su come si garantisce l'accesso, su chi li controlla, su chi li eroga, sulle condizionalità, sul debito.

Alla Cop26 si stanno riscrivendo le regole del mondo futuro. Non ci sarà accordo se non si troverà una chiave finanziaria per gestire i costi della crisi climatica. La cattiva notizia è che ci sono solo cinque giorni per gettare queste basi.  

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