Nel leggere che l’Azerbaigian è il primo paese nella storia della Cop a ricevere la certificazione Iso 20121, una coccarda sul petto per la gestione sostenibile dell’evento, si potrebbe essere tratti in inganno. La realtà è ben diversa ed evidenzia i fallimenti piuttosto che i successi della ventinovesima edizione della Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici. Nonostante le tante iniziative, non c’è stata una vera e propria inversione di tendenza né sono state prese decisioni radicali, come richiederebbero le circostanze. Il cibo ne è una dimostrazione pratica.

È stato il tema centrale del nono giorno quando, con il contributo della Fao, la presidenza azera della Cop ha lanciato la Baku Harmoniya Climate Initiative for Farmers, una piattaforma che aiuta a comprendere dove e come intervenire per supportare il lavoro degli agricoltori che viene considerato essenziale per la difesa del clima.

Come quello dei contadini filippini, rappresentati a Baku dall’attivista Esther Penunia, che con un appello accorato ha chiesto con urgenza un accordo miliardario per fornire aiuti e contrastare le calamità naturali estremi (alcune stime parlano di 205 miliardi di dollari da iniettare ogni anno nel settore alimentare privato per allinearlo agli obiettivi della scienza).

Nella stessa giornata, i 30 paesi responsabili di circa il 50 per cento delle emissioni globali di metano derivanti dai rifiuti organici si sono impegnati a inquinare meno. Un buon numero, svilito però da quelli presentati nel rapporto Waste and Resource Action Program (Wrap): su 195 stati partecipanti, appena 12 hanno promesso di ridurre lo spreco alimentare e solo in 17 di fronteggiare lo spreco di cibo. Ciò significa che l’88 per cento dei paesi non lo farà.

Il momento storico obbligherebbe invece a fare scelte diverse. In termini di emissioni di gas serra, il cibo andato perduto pesa quasi cinque volte più dell’aviazione e, se potessimo considerarlo un paese, sarebbe il terzo stato più inquinante al mondo dietro Cina e Stati Uniti. In termini economici, parliamo di 1,5 trilioni di dollari bruciati.

Per non parlare dell’altro spicchio anche piuttosto grande della torta, quello rappresentato dagli alimenti che neanche superano i test di conformità e pertanto non possono essere venduti, seppur commestibili.

Nella dichiarazione dell’ultimo G20, che si stava tenendo in contemporanea a Rio de Janeiro, in Brasile, è stato scritto nero su bianco che 733 milioni di persone soffrono la fame nel mondo, in particolare donne e bambini. Eppure l’Azerbaigian sembrava essere partito con il piede giusto. Il paese, che ha fatto del petrolio la fonte della sua economia, aveva lanciato una serie di iniziative per combattere lo spreco alimentare, compresa la raccolta differenziata di cui si era vantato il responsabile del dipartimento della ristorazione, pulizia e smaltimento dei rifiuti Anar Zeynalov. Troppo poco.


Contromisure limitate

«Un terzo del cibo viene sprecato a livello globale, mentre dall’altra parte vediamo la malnutrizione e la fame», ha osservato la senior international engagement manager della Food and Land Coalition, Katie McCoshan, secondo cui siamo davanti a una «questione complessa». Stesso aggettivo si può usare per la sua soluzione. Le cause principali dello spreco di cibo sono diverse e si trovano lungo tutta la filiera: gran parte viene sprecato ancor prima di uscire da dove viene prodotto o durante il trasporto, a causa della mancanza di gas di conservazione e raffreddamento.

Investire nelle infrastrutture sostenibili e nelle nuove tecnologie è sicuramente un punto di partenza imprescindibile per provare a combattere questa piaga, a cui deve inevitabilmente seguire un sostegno economico ai paesi in via di sviluppo per allargare quanto più possibile l’accesso al cibo. La riduzione dello spreco rientra d’altronde tra gli obiettivi da raggiungere entro la fine del decennio fissati dall’Onu, ma si è lontani dal centrarlo. In vista della prossima Cop, a Baku è stata promossa la Food Waste Breakthrough nell’ambito della Marrakech Partnership for Global Climate Action, iniziativa a supporto dell’Accordo di Parigi che collega i governi ai vari stakeholders, per cercare di dimezzare entro il 2030 lo spreco alimentare globale e ridurre di un terzo le emissioni di metano.

Educare per non sprecare

L’educazione alimentare è alla base di questa rivoluzione. Per velocizzare i tempi è necessario che ognuno svolga la propria parte, a cominciare dal singolo. Per Eurostat, il 54 per cento dello spreco di cibo avviene dentro le mura di casa e, dato ancor più allarmante, il 10% è condizionato dall’errore. Too Goo To Go, azienda danese fondata diversi anni fa con l’obiettivo di aiutare le aziende a vendere le eccedenze invogliando i consumatori ad acquistare a prezzi scontati cibo ancora buono che altrimenti andrebbe scartato, ha condotto un sondaggio da cui è emerso che un italiano su tre getta prodotti alimentari nella spazzatura perché legge male l’etichetta. C’è una grande differenza tra la dicitura “da consumarsi entro” e quella “da consumarsi preferibilmente entro”: la prima indica la data oltre cui non bisognerebbe mangiare o bere quel prodotto, mentre la seconda sottolinea quella che garantisce la miglior qualità.

I più attenti sono i millennial, mentre quelli più distratti che sprecano di più sono quelli della Generazione Z. C’è poi un altro sondaggio, realizzato da Gallup lo scorso luglio, che mette in luce un altro segnale: gli americani non nutrono più fiducia nei confronti delle agenzie federali, ritenute incapaci di arginare l'insicurezza alimentare.

Il crollo ha cominciato a verificarsi a partire dal 2019, acuito durante la diffusione della pandemia quando la scienza è finita nel mirino di molti. Soprattutto tra gli elettori repubblicani, il cui credito nei confronti del governo negli ultimi cinque anni si è eroso di quasi un terzo. Al contrario, tra i democratici è cresciuto di nove punti. Politicizzare il cibo è tuttavia l’ultima cosa che ci vuole.

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