I delegati più navigati, quelli con esperienza da decine di conferenze sul clima, avevano accolto con preoccupazione la montagna di aspettative che circondavano la COP26 di Glasgow.

«Una Cop non è fatta per risolvere i cambiamenti climatici» era la frase mantra. Il problema era che il mondo si aspettava però esattamente questo.

Per la prima volta da quando la scienza si è accorta della crisi climatica questo evento ciclico che si svolge ogni anno (pandemia esclusa) era accompagnato da una domanda di cambiamento radicale.

Le opinioni pubbliche - soprattutto dei grandi paesi democratici e di quelli più piccoli e vulnerabili - non erano pronte a digerire un negoziato nel quale si discute fino a notte di virgole, tempi verbali, se «requests» sia più legalmente forte di «urges», di tabelle.

«Questo è un processo pensato per costruire altri processi, più che decisioni sul mondo reale», spiegava una delegata italiana durante uno degli ultimi frenetici giorni.

Il limite della sovranità

Alok Sharma President of the COP26 summit gets up after a stocktaking plenary session at the COP26 U.N. Climate Summit in Glasgow, Scotland, Saturday, Nov. 13, 2021. Going into overtime, negotiators at U.N. climate talks in Glasgow are still trying to find common ground on phasing out coal, when nations need to update their emission-cutting pledges and, especially, on money. (AP Photo/Alberto Pezzali)

La conferenza sul clima è una cornice di procedure pensata per guidare i 197 paesi membri a inserire da soli i contenuti adatti alla sfida, cioè le transizioni ecologiche nazionali.

La Cop deve scontrarsi ogni anno col vero limite all'azione per il clima, che è la sovranità nazionale, inadatta a governare quello che succede nel più globale degli elementi: l'atmosfera. 

Il risultato più storico di COP26 è stato aver menzionato per la prima volta le fonti fossili di energia in un documento sul clima. I due punti sono il carbone, per il quale i paesi accettano di intraprendere un «phase down», una riduzione graduale, e i sussidi pubblici al petrolio e al gas, da iniziare a sopprimere.

La formula si è annacquata col passare dei giorni, fino al colpo di mano finale di Cina e soprattutto India, che - con una mossa da giocatori d'azzardo - hanno costretto un'assemblea esausta ad accettare il declassamento da un'espressione forte e netta («phase-out», uscita totale) a una più morbida («phase down»).

Con questo colpo di scena hanno ottenuto due risultati. Il primo è più margine per usare una fonte centrale nelle loro economie. Il secondo è ribadire che nessuno imporrà a cinesi e indiani come alimentare il paese.

Hanno protestato allo stesso modo il commissario europeo Timmermans e i delegati di Maldive e Isole Marshall, uniti dallo stesso senso di impotenza.

Viviamo nel mondo di India e Cina, per lunghi tratti del negoziato la leadership di Regno Unito, Europa e Usa è sembrata un'illusione ottica, una profezia che non si autoavvera. 

I risultati concreti

Delegates wearing face masks to curb the spread of coronavirus walk past a summit logo in the plenary room at the COP26 U.N. Climate Summit, in Glasgow, Scotland, Saturday, Nov. 13, 2021. Going into overtime, negotiators at U.N. climate talks in Glasgow are still trying to find common ground on phasing out coal, when nations need to update their emission-cutting pledges and, especially, on money. (AP Photo/Alberto Pezzali)

I lavori di Glasgow hanno anche prodotto risultati tecnici difficili da vendere come trionfi ma importanti, perché renderanno più effettiva l'azione sul clima.

È stato trovato un accordo sulla trasparenza: i paesi inizieranno a contare, riportare e farsi valutare dall'Onu le emissioni nello stesso modo. È un passaggio che stana i grandi paesi emettitori e la loro tendenza ad aggiustare i calcoli, pratica rischiosa in un contesto in cui i dati sono l'unico strumento in grado di dirci quanto siamo vicini al precipizio.

È stato messo un freno alla giungla del mercato crediti di carbonio - i permessi a inquinare scambiati tra i paesi - eredità tossica degli accordi di Parigi e Kyoto.

Il processo negoziale Onu è così angusto che i risultati più chiari sono stati ottenuti dalle intese a margine. Era la strategia del Regno Unito per alzare il profilo della Cop26 aggirandone i limiti: club di paesi che si organizzano per stimolare gli altri. È il modello Boga (Beyond Oil and Gas Alliance): Danimarca e Costa Rica hanno creato un'alleanza di virtuosi che si impegnano a rinunciare alle fonti fossili e invitano altri a unirsi, in modo fluido, elastico e veloce.

È probabile che in futuro vedremo più intese del genere ed è così che a Cop26 abbiamo avuto il più grande piano mai avuto per la deforestazione, la prima intesa globale contro il metano, la fine dei sussidi ai progetti internazionali di oleodotti e trivelle in tutti i grandi paesi europei. 

Scontentare tutti

La Cop26 ha prodotto un compromesso al ribasso ed era l'orizzonte inevitabile. L'unica possibilità per avere il Patto sul clima di Glasgow siglato sabato era trovare soluzioni e formule che scontentassero tutti in modo tollerabile, come aveva spiegato l'inviato per il clima John Kerry.

L'obiettivo era tenere viva la prospettiva di un aumento delle temperature di 1.5° C e la conferenza ci è riuscita. La nostra traiettoria è negativa (Climate Action Tracker ha calcolato 2.4° C) ma abbiamo tempo e strumenti per abbassare la curva. L'obiettivo 1.5° C è ancora in «terapia intensiva», per usare la formula di Alden Meyer del centro studi E3G.

Prima dell'accordo di Parigi l'umanità correva verso 4°C, che sarebbero stati l'apocalisse. Ora, nonostante errori e lentezze, abbiamo dimezzato le prospettive di una fine del mondo come lo conosciamo, ma siamo ancora lontani dall'essere al sicuro.

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