È una delle poche cose che accomunano nord e sud globale, democrazie e autocrazie, società aperte e società chiuse: uno studio recente mostra che in tutte le varianti della civiltà umana che conosciamo oggi chi manifesta per chiedere protezione ambientale e azione per il clima viene criminalizzato
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Un nuovo studio dell’università di Bristol mostra come la repressione dell’attivismo climatico e ambientale sia una delle poche cose che accomunano nord e sud globale, democrazie e autocrazie, società aperte e società chiuse: in tutte le varianti della civiltà umana che conosciamo oggi chi manifesta per chiedere protezione ambientale e azione per il clima viene criminalizzato, arrestato, incarcerato, minacciato.
La ricerca si intitola Criminalisation and repression of climate and environmental protests ed è la più ampia di questo tipo mai condotta nel mondo, un’analisi con dati locali e una fotografia globale. «La repressione è un trend internazionale, sta diventando sempre più difficile battersi per la giustizia climatica», hanno scritto su Climate Home News Oscar Berglund e Tie Franco Brotto, due degli autori dell’analisi. «Criminalizzazione e repressione si estendono sia nel nord che nel sud del mondo, e includono sia paesi più democratici che meno democratici».
L’attivista per il clima in carcere è, insomma, uno dei pochi temi sui quali una democrazia occidentale non si vergogna né trova strano trovarsi al fianco di una dittatura. Lo studio distingue tra proteste climatiche e proteste ambientali. Queste ultime hanno un carattere più locale, movimenti contro infrastrutture distruttive come estrazioni di petrolio e gas, dighe, progetti di deforestazione, miniere. Queste proteste sono distribuite in modo uniforme nel mondo. Quelle climatiche sono le battaglie per ridurre le emissioni e per cambiamenti di policy energetiche, e sono più frequenti nelle aree urbane del nord globale.
Vie per criminalizzare
La criminalizzazione può prendere quattro strade principali: nuove leggi che creano nuovi reati o estendono le pene di reati esistenti. L’Italia non fa parte dei paesi analizzati dall’università di Bristol, ma è sicuramente un buon esempio di questa casistica, con il ddl Sicurezza che segue la stessa strategia, che fa parte di un metodo collaudato a livello internazionale: nei 14 paesi analizzati, negli ultimi cinque anni ci sono state 22 leggi mirate a danneggiare gli attivisti per il clima e l’ambiente. Il secondo tassello è la persecuzione giudiziaria, usando leggi anti-mafia e anti-terrorismo contro i movimenti, una strada seguita in Italia, in Germania o nelle Filippine.
Il terzo è la durezza della repressione poliziesca, tutto il repertorio consolidato di fermi, sorveglianze speciali, violenza fisica, infiltrazioni, minacce, perquisizioni, sequestri. Un sotto-trend preoccupante è quanto alle operazioni di polizia si stiano affiancando quelle di apparati di sicurezza privati di grandi gruppi energetici, è successo in Germania come in Perù. Quarto: omicidi mirati e rapimenti, e qui i dati peggiori sono quelli di Brasile, Filippine, Perù e India.
Un luogo comune smentito
Secondo la ricerca, un argomento così frequente da essere diventato un luogo comune forse andrebbe messo in discussione, l’idea che la protesta abbia avuto un picco nel 2019 ma non siamo più tornati a quei livelli.
È vero, le manifestazioni hanno raggiunto un apice tra il 2018 e il 2019, quando apparvero Extinction Rebellion a Londra e Fridays for Future in Svezia, ma da allora non hanno visto nessun particolare declino nei numeri dei cortei (in quelli dei manifestanti però sì). Si sono spostate, hanno cambiato forme, obiettivi, paesi, ma non sono sparite. I cortei per il clima sono rimasti stabilmente il 4 per cento delle proteste sopra i 1000 partecipanti anche dopo il doppio colpo della pandemia e della guerra in Ucraina.
Il problema è l’esito che hanno iniziato a trovare. Il 3 per cento delle proteste climatiche e ambientali nel mondo finisce con violenza contro i manifestanti e il 6,3 per cento con degli arresti. Il livello però può variare da paese a paese, con numeri talvolta sorprendenti. Il paese dove è più facile finire in manette dopo un corteo per il clima è il Canada (27 per cento), seguito da Australia e Regno Unito (intorno al 20 per cento).
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