Senza un’azione immediata per combattere il cambiamento climatico, 216 milioni di persone potrebbero essere costrette a migrare in altre parti del loro paese o in paesi limitrofi entro il 2050. Lo afferma un nuovo rapporto della Banca mondiale dove i ricercatori hanno modellato l’impatto dell’innalzamento del livello del mare, della scarsità d’acqua e del calo della produttività delle colture su sei regioni del pianeta, concludendo che i “punti caldi” della migrazione climatica emergeranno già a partire dal 2030.

Le aree più povere del mondo saranno le più colpite: la sola Africa subsahariana vedrà ben 86 milioni di migranti interni. L’Asia meridionale dovrà ospitare 40 milioni di migranti interni e altri 49 milioni provenienti dall’Asia orientale e dal Pacifico. Tali movimenti metteranno a dura prova sia le aree che verranno abbandonate dalle persone, sia quelle che le riceveranno, mettendo in crisi città e centri urbani e a repentaglio lo sviluppo di grandi regioni del pianeta.

Lo studio riporta alcuni esempi: l’innalzamento del livello del mare minaccia la produzione di riso, l’acquacoltura e la pesca sul delta del Mekong, in Vietnam ed è per questo che l’area è considerata un “punto caldo” dell’emigrazione. Ma il delta del Fiume rosso, dove è probabile che le persone interessate dal fenomeno si riversino nei prossimi anni, sarà colpito da forti tempeste. Conflitti e crisi sanitarie ed economiche come quelle scatenate dalla pandemia di Covid-19 potrebbero aggravare ancor più le situazioni.

C’è da sottolineare che il numero di migranti climatici potrebbe essere molto più alto rispetto ai numeri rilasciati dal rapporto, poiché quest’ultimo non copre la maggior parte dei paesi ad alto reddito, delle nazioni del medio oriente e dei piccoli stati insulari. Ma altri studi, negli ultimi anni, hanno cercato di capire cosa avverrà in queste ultime: ricercatori della University of Southern California hanno ipotizzato che negli Stati Uniti, quasi 13 milioni di americani saranno costretti a trasferirsi nel cuore del paese entro la fine del 21° secolo.

Molti si trasferiranno nell’entroterra, dalle aree costiere a città senza sbocco sul mare a causa delle problematiche ambientali che si verranno a verificare vicino alle coste. E questo è solo un esempio. Kanta Kumari Rigaud, responsabile dell’ambiente per la Banca mondiale e coautore del nuovo rapporto, ha affermato che la Terra è «già fortemente toccata dal riscaldamento globale» e che le migrazioni climatiche sono una realtà presente, non un problema futuro.

Coralli e cambiamento climatico

Una nuova ricerca pubblicata su Global Change Biology da un gruppo di scienziati dell’Arc Centre of Excellence for Coral Reef Studies (Coral CoE) australiano, è giunto alla conclusione che, nei prossimi decenni, i coralli potrebbero essere in grado di far fronte ai cambiamenti climatici meglio di quanto si era fin qui pensato, tuttavia dovranno continuare a combattere per la loro sopravvivenza per i cambiamenti climatici che saranno sempre più rapidi e non è certo che la battaglia possa essere vinta dai coralli stessi.

Il responsabile della ricerca, Kevin Bairos-Novak, ha spiegato: «La velocità con la quale i coralli possono adattarsi ai cambiamenti climatici è strettamente legata a ciò che viene loro trasmesso dai genitori. Il nostro lavoro è consistito nell’analizzare tutti i lavori eseguiti sui coralli fatti nel passato, esaminando quella che viene chiamata “ereditarietà” e questo ci ha permesso di capire come la sopravvivenza dei coralli genitori sotto stress ambientale venga trasmessa, attraverso i geni, alla loro prole.

Abbiamo così scoperto che la loro capacità di trasmettere tratti adattivi viene mantenuta nonostante l’aumento delle temperature. In particolare, i coralli che meglio di altri sono in grado di sopravvivere agli stress ambientali che portano allo sbiancamento sono anche i più bravi a trasmettere quanto hanno scoperto a loro vantaggio alla loro prole». E questa è davvero una buona notizia, ma sottolinea il ricercatore: «Per sfruttare al meglio questa capacità di adattamento è necessario ridurre l’attuale crescita del riscaldamento globale altrimenti si arriverà al punto che il meccanismo si incepperà».

Un’altra autrice dello studio, Mia Hoogenboom, spiega: «Sebbene i coralli abbiano dimostrato di essere in grado di prendere provvedimenti contro l’aumento della temperatura e questa non sembra influenzare la loro capacità di trasmettere i tratti adattivi, alcuni danni legati al cambiamento climatico esiste comunque perché la velocità del cambiamento degli ultimi anni è stata troppo veloce perché l’adattamento dei coralli abbia potuto tenere il passo».

Secondo lo studio infatti, se il cambiamento climatico è troppo veloce, non c’è tempo sufficiente perché l’evoluzione generi nuove variazioni per far fronte a condizioni ancora più stressanti. Adattarsi al cambiamento significa che una specie può persistere in un ambiente alterato senza scomparire, ma quando sorgono nuove condizioni, l’evoluzione ha bisogno di tempo per generare quelle variazioni nelle caratteristiche dei coralli, come la sopportazione all’aumento della temperatura, tali da diffondersi nella popolazione per far fronte alla nuova situazione.

La ricerca è una sintesi di 95 rilevazioni delle caratteristiche di 19 specie di coralli che costruiscono barriere coralline. Conclude Bairos-Novak: «I reperti fossili ci dicono che i tempi di rapido cambiamento ambientale sono una grande sfida per la vita e possono portare a tassi di estinzione molto alti. Una sfida, che in questo periodo, è affrontata da tutti gli organismi viventi della Terra. I nostri risultati dimostrano che i coralli sono combattenti e vogliono sopravvivere. E per questo sono diventati bravi a trasmettere tratti benefici alla generazione successiva e a quella successiva ancora».

La nuova lista rossa

Durante il Congresso mondiale sulla conservazione tenutosi recentemente a Marsiglia, è stata presentata la versione aggiornata della Lista rossa delle specie viventi a rischio di estinzione, realizzata dalla Iucn (Unione internazionale per la conservazione della natura): su 138.374 specie tenute sotto osservazione, 38.543 sono attualmente minacciate di estinzione.

La causa è da ricercare nella “pressione” cui sono sottoposti gli ecosistemi dei loro habitat. Il rapporto comunque, riporta anche qualche elemento che lascia sperare in una forma di ottimismo per il futuro, si tratta di elementi legati a progetti di conservazione portati avanti negli ultimi anni. Risulta infatti, che delle sette specie di tonno più pescate, quattro di loro hanno mostrato segni di ripresa grazie ai paesi che hanno capito di utilizzare una pesca più sostenibile.

Ad esempio il “tonno rosso del Pacifico (Thunnus orientalis)” è passato da vulnerabile (Vu) a quasi minacciato (Nt), che è un grado di pericolo inferiore. Va sottolineato però, che la specie rimane comunque gravemente depauperata in quanto si trova a meno del 5 per cento della sua biomassa originale. L’alalunga (Thunnus alalunga) e il tonno pinna gialla (Thunnus albacares) si sono spostati entrambi a minor preoccupazione (che è il primo stadio del pericolo di estinzione). Spiega Beth Polidoro, dell’Arizona State University: «I risultati appena pubblicati sullo stato dei tonni commerciali sottolineano come la pesca sostenibile sia possibile e a favore di tutti». Nonostante il miglioramento globale, tuttavia, molte riserve di tonno rimangono gravemente impoverite a livello regionale.

Ma tornando a una visione più ampia della situazione, va detto che quasi il 28 per cento delle specie studiate dall’Iucn sono minacciate e tra queste il 41 per cento sono anfibi, il 34 per cento conifere, il 33 per cento mammiferi e coralli e il 14 per cento uccelli. Fa impressione che tra i rettili sia in pericolo il drago di Komodo (Varanus komodoensis), la lucertola vivente più grande al mondo, diffusa tra l’Indonesia e l’Australia, la quale è sempre più minacciata dagli impatti dei cambiamenti climatici. Stando ad altre ricerche si ipotizza che l’aumento della temperatura globale ridurrà l’habitat adatto del drago di Komodo di almeno il 30 per cento nei prossimi 45 anni.

E ciò avverrà soprattutto al di fuori del Parco nazionale di Komodo, dove il “drago” è attualmente stabile e ben protetto, in luoghi cioè, dove è già evidente una significativa perdita di habitat a causa delle attività umane in corso. Andrew Terry, direttore della conservazione presso la società zoologica di Londra ha detto: «L’idea che questi animali preistorici si siano avvicinati di un passo all’estinzione a causa in parte dei cambiamenti climatici è spaventoso ed è un ulteriore appello della natura da mettere al centro di tutte le decisioni alla vigilia della Cop26 di Glasgow».

Tra le specie a maggior rischio vi sono anche degli squali e delle razze: il 37 per cento è ora minacciato di estinzione, il che dimostra come manchino misure di gestione efficaci in gran parte degli oceani del mondo. Tutte le specie minacciate di squali e razze sono sovrasfruttate, con il 31 per cento ulteriormente colpito dalla perdita e dal degrado dell’habitat e il 10 per cento colpito dal cambiamento climatico.

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