Il petrolio è stato un oggetto di primo piano nel confronto elettorale degli Stati Uniti. Eppure il suo prezzo si è dimostrato insensibile alla vittoria di un presidente, Joe Biden, che si è dichiarato contrario all’industria dei combustibili fossili.

Nelle regioni del petrolio, del carbone e del gas e negli stati dove si concentrano le riserve e l’estrazione di shale ha vinto Donald Trump.  Ha superato il 65,5 per cento dei voti in Nord Dakota, 62 in Alaska, 52,2 in Texas. In Virginia, dove l’estrazione di petrolio è raddoppiata in pochi anni, Trump ha ottenuto il 68,7; come in Okhlaoma: 65,4 per cento il 70,4 nel Wyoming  e 53 in Ohio, ricchi di combustibili fossili. 

Tre stati fanno eccezione in questa mappa: in California, quarta per produzione di petrolio, Biden ha raccolto quasi il 65 per cento dei voti, nonostante proprio in California, a Monterey Shale, si trovino le più ampie riserve degli Stati Uniti; ma le autorità statali e le associazioni ambientaliste vigilano per proteggere l’ambiente. Tra gli altri oil states della mappa, Biden ha conquistato Colorado e New Mexico.

Il disastro shale

Sarebbe stato un esito scontato, quello descritto, se gli ultimi anni della presidenza Trump non fossero stati testimoni del disastro delle imprese dello shale, culminato nei fallimenti recenti al quale la politica del presidente ha contribuito involontariamente.

La strategia fatta di sussidi e di supporto finanziario, priva di una visione di lungo periodo ha provocato una sovrabbondanza nella produzione globale di petrolio che, dopo l’inatteso precipitare della domanda di energia durante la pandemia, ha determinato il crollo del prezzo del petrolio del 2020.

Contro ogni evidenza economica, gli elettori hanno mostrato di dare ancora credito agli  impegni di Trump di sostenere il settore dei combustibili fossili, alle sue promesse di proteggere il comparto con politiche fiscali, con l’abrogazione delle regole restrittive, quelle per la difesa dell’ambiente in  particolare (più di cento sono state sospese nei quattro anni della sua presidenza).

Lo shale è stato avviato in realtà da George W. Bush, grazie alla strategica mappatura militare del sottosuolo. Poi durante gli otto anni di Barack Obama, il “presidente della crescita verde e sostenibile”, la produzione di shale oil e shale gas è esplosa. Fino a rendere gli Stati Uniti quasi indipendenti dalle importazioni di energia, obiettivo perseguito fin dalla seconda guerra mondiale.

Le imprese dello shale, più flessibili e reattive grazie a tecnologie innovative, sono diventate determinanti nella formazione del prezzo mondiale del petrolio, ruolo da sempre ricoperto dall’Arabia Saudita a dall’Opec, il cartello dei paesi produttori. E questo ha contribuito a modificare la politica estera americana.

Con Trump è avvenuta la rottura dei nuovi equilibri del settore: le imprese americane dello shale hanno attraversato una crisi debitoria gravissima dopo il crollo del prezzo del petrolio. Più di 40 imprese sono fallite a fronte di uno stock di debiti che sfiora i 50 miliardi di dollari.

Nelle stime di Bloomberg, circa 30 miliardi di dollari di accordi per acquisizioni e fusioni societarie sono stati programmati nelle scorse settimane. L’industria dello shale sarà dominata da non più di mezza dozzina di grandi imprese -tra le quali Chevron, Conoco Phillips, Exxon Mobil, Devon Energy-.

L’ impegno profuso da Trump a sostegno di carbone e petrolio contrasta anche con le politiche degli stati, per lo più impegnati in azioni di decarbonizzazione. E’ un fatto che le città, gli Stati, le imprese statunitensi abbiano sposato l’impegno per la riduzione delle emissioni di CO2 e durante la presidenza Trump si siano connessi in organizzazioni come America’s Pledge e We Are Still In.

Ventiquattro stati e il distretto di Colombia hanno mantenuto l’obiettivo degli Accordi di Parigi di ridurre le emissioni del 26-28 per cento rispetto il livello del 2005 entro il 2025 (Oilprice.com).

Le priorità di Biden

Biden e Trump sull’energia hanno espresso il massimo divario. Biden ha promesso 1.700 miliardi a sostegno delle rinnovabili e della difesa del pianeta, ha addirittura dichiarato di voler far uscire gli Stati Uniti dal mondo del petrolio, perseguendo l’obiettivo di emissioni zero entro il 2050.

Nel programma di Biden si legge l’installazione di 500 milioni di pannelli solari, di 500.000 stazioni di ricarica per le auto elettriche lungo le strade americane; è proposta la trasformazione di 3 milioni di veicoli pubblici in veicoli elettrici a zero emissioni; l’obbligo di costruire tutti i nuovi edifici con caratteristiche a emissioni zero dal 2030 e l’impegno a convertire 4 milioni di edifici esistenti; infine, a emettere regole per l’industria del gas e del petrolio volte a garantire “giustizia ambientale”.

Per le coincidenze della storia, il 4 novembre, il giorno successivo alle elezioni americane, è scaduto il periodo transitorio per dare seguito alla decisione resa ufficiale un anno fa da Trump: diventa operativa la decisione di far uscire gli Stati Uniti dagli Accordi globali della Cop 21 di Parigi per combattere il cambiamento climatico. Biden si è da sempre dichiarato contrario a quella scelta.

E’ prevedibile che gli Stati Uniti resteranno parte del gioco cooperativo globale nella transizione energetica, segnando la prima seria discontinuità con l’era Trump.

La scarsa reazione del prezzo dei fossili all’esito elettorale è in linea con la strategia dell’industria del settore, ormai esposta nella transizione energetica con investimenti in tecnologie pulite -dall’idrogeno verde al suo utilizzo  nell’industria pesante,  dalla mobilità elettrica alla generazione di elettricità da fonti rinnovabili-; sono investimenti ingenti, di lungo periodo, dunque difficilmente reversibili, che seguono i binari tracciati dal nuovo modello energetico di crescita sostenibile fondato su fonti rinnovabili, gas e digitale. 

Sono di questi giorni i primi accordi tra le grandi case automobilistiche e la filiera di produzione delle batterie, dell’idrogeno, della cattura del carbonio. Le multinazionali statunitensi non possono permettere che la Cina assuma la leadership del settore della mobilità elettrica; mentre  il governo tende a ricreare con le nuove filiere della sostenibilità un indotto significativo nel panorama sofferente dell’industria e dell’occupazione statunitense.Il legame col dollaro

Un altro aspetto meno evidente mostra la grande discontinuità che si è consumata nel decennio trascorso; la correlazione tra prezzo del petrolio e dollaro (in direzione opposta) si è indebolita. 

Il petrolio  è scambiato per l’80 per cento in dollari. Quando il dollaro toccava la parte bassa del ciclo valutario o si riduceva il prezzo del petrolio, si è posto il dilemma se compensare la riduzione delle entrate contraendo la produzione e  provocando un aumento del prezzo, oppure se mantenere la quantità prodotta, ovvero difendere la quota di mercato dei singoli paesi, lasciando scendere il valore in dollari delle entrate.

La scelta, assai azzardata, tra prezzo e quantità, riguarda solo I paesi le cui altre esportazioni sono pagate in valute diverse dal dollaro, in euro o in valute asiatiche. Per le imprese statunitensi infatti il problema non si pone, poiché l’intero interscambio avviene in dollari.

Al crescere della produzione e degli scambi globali delle imprese americane dello shale la correlazione tra prezzo del petrolio e dollaro non può che ridursi.

Da qui origina anche la pressione dei principali paesi esportatori di petrolio per utilizzare la propria valuta -rublo, renmimbi, real- o un paniere di valute in graduale sostituzione al dollaro nel pagamento dei flussi di petrolio.

L’incertezza economica sui mercati globali ha accentuato il peso della speculazione. La volatilità del prezzo del petrolio ha offerto l’ancoraggio di un bene rifugio nei momenti di grave incertezza economica, scambiato solo in titoli finanziari, per lo più attraverso contratti futures, che esulano dallo scambio reale del combustibile ma accentuano la gravità delle crisi globali -come nel 2008, quando il petrolio crollò da 145 dollari il barile a 31 dollari, in pochi mesi -  subito prima della grande crisi.

La finanziarizzazione del settore è pervasiva e pericolosa per gli equilibri globali. La Cina ha lanciato nel 2018 i suoi primi contratti futures sul petrolio in renmimbi sulla borsa del Shanghai International Energy Exchange, i primi aperti a investitori internazionali, esplicitando il percorso: dapprima i margini potranno essere depositati in dollari, per il futuro è previsto invece l’uso di un paniere di valute.

E’ questa la situazione in cui tassi di interesse bassi e ampia liquidità concorsero a creare un terreno fertile per la finanziarizzazione del petrolio e per la creazione di bolle speculative nei beni rifugio, tra i quali spicca l’edilizia, ma anche materie prime come il cobalto. L’esito di questi cambiamenti continua a essere potenzialmente dirompente per gli equilibri economici globali.

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