C'è una puntata dei Simpson in cui Krusty il Clown fa il giurato di un festival cinematografico a Springfield, per sbaglio rivela di essere stato corrotto (dal signor Burns, ovviamente) e dice: ops, ho detto ad alta voce la cosa che dovevo dire a bassa voce. «The quiet part loud».

Quasi un glitch di comunicazione: tutto il discorso italiano su questa ondata di calore eccezionale è così: articoli che rivelano molto più di quello che dicono. È una verità semplice, in fondo.

Il caldo non è uguale per tutti, è un'esperienza che la classe sociale e le condizioni materiali di vita rendono incredibilmente soggettiva. Gli articoli e i commenti borbottanti su: si, fa caldo, ma è normale, che sarà mai, è estate, suggeriscono ad alta voce non solo incapacità di leggere i dati scientifici ma anche una verità semplice: chi li scrive non sta davvero soffrendo il caldo.

Chi passa ventidue delle proprie ventiquattro ore di giornata in una confortevole aria condizionata sa che fa caldo ma non soffre il caldo, lo sperimenta solo nei brevi passaggi all'aperto, come uno sceicco del Golfo tra l'albergo e la limousine, e può accogliere la ventata di umidità e calore come un'esperienza quasi esotica.

L'aria condizionata è come la navicella per miliardari in fuga da un pianeta che brucia ridotta a esperienza quotidiana. Cinque braccianti morti di caldo nelle campagne italiane, un operaio morto di caldo a Lodi mentre lavorava su una spianata di cemento, un altro di 75 anni sulla gru di in cantiere a Jesi, un altro nell'alloggio container dove riposava in una pausa dal cantiere della Tav.

Non avevano spazio e voce per scrivere un articolo sulla loro esperienza di questa ondata di calore e un malore dietro l'altro sono andati via senza poterci raccontare com'è lavorare all'aperto a luglio in Italia in un'ondata di calore resa cinque volte più probabile dalla crisi climatica. Questo è l'episodio 132 di Areale e cominciamo parlando di qualcosa di completamente diverso, sennò qui usciamo pazzi.

La speranza è un erbario e un seme ortodosso

(credit: Kew Gardens)

Questa è una storia di speranza che consuma gli occhi e di consumarsi gli occhi con molta speranza (e altrettanto rigore scientifico). Si parla di resurrezione delle piante, di de-estinzione, di riportare in vita specie vegetali che IUCN (International Union for Conservation of Nature) classifica come definitivamente estinte. Piante che non esistono più in natura, né negli orti botanici, né nelle grandi banche dei semi del mondo (il più famoso è il Global Seed Vault alle isole Svalbard, ma ce ne sono diverse, anche in Italia). Esseri viventi funzionalmente persi.

Probabilmente hai già sentito parlare di progetti analoghi, molto meglio finanziati e più discussi, sulla fauna. Il famoso «ritorno del mammuth». Ma esiste un filone di ricerca che sta provando a fare la stessa operazione (dal punto di vista filosofico) sulle specie vegetali.

È una storia interessante per tanti motivi: per il tentativo di invertire l'impatto umano sugli ecosistemi (il 40 per cento delle estinzioni vegetali recenti è antropogenico) e perché c'è tanta ricerca italiana dentro. Ne ho parlato con Giulia Albani Rocchetti, una ricercatrice del Plant Conservation Research Group dell'Università Roma Tre che, sotto la guida del professor Thomas Abeli, ha dedicato un dottorato a cercare di capire una cosa fondamentale: se volessimo riportare in vita delle piante che non sono più vive in nessun punto del mondo, come potremmo fare? E da quali dovremmo partire? Quali avrebbero più speranze di tornare?

La risposta è negli erbari, le raccolte di campioni botanici secchi che piano piano sono state digitalizzate, ed è qui che Giulia si è consumata gli occhi con molta speranza. Ma facciamo un passo indietro. Il primo ostacolo, quando vuoi riportare in vita una pianta estinta invece di un mammuth, è la plant blindness. La cecità per le piante.

«Immagina di vedere la foto di un bosco», spiega Albani Rocchetti. «Un bosco, decine di alberi, magari un prato, e al centro un cavallo. Cos'è quella, per te? Certo. È la foto di un cavallo». Questa è la cecità selettiva che ci fa vedere, riconoscere, stupire ed emozionare solo per qualcosa che si muove in tempi e su scale che ci sono più affini.

«Anche le piante si muovono, hanno dei comportamenti, delle interazioni, ma su un livello temporale che non riusciamo a vedere». Questo ha delle conseguenze su vasta scala, nel campo della de-estinzione per esempio il fatto che la maggior parte della ricerca di settore sia diretta a ridarci il mammuth e non una leguminosa. La maggior parte della ricerca non vuol dire tutta la ricerca: il lavoro di Albani Rocchetti è provare a restituirci la leguminosa estinta. Da dove si parte? Dagli erbari digitali, appunto. L'unica possibilità di riportare in vita le piante che abbiamo fatto sparire dalla faccia della Terra è sperare che da qualche parte, magari in un campione secco, ci sia ancora un seme vitale. «Avere questa idea è stata un momento "Si può fare" alla Frankenstein Jr"».

Decenni fa Giulia avrebbe passato la vita a girare fisicamente gli erbari di tutto il mondo. Ora sono gli erbari, in formato digitale, che sono arrivati al suo laboratorio. Tanta parte di questo lavoro è stata guardare una a una le foto dei campioni delle piante estinte degli erbari digitalizzati, e cercare di vedere se c'erano dei semi.

In alcuni casi contattare i custodi degli erbari e chiedere di verificare di persona. Quei semi sono la speranza. Se uno di quei semi è vivo, c'è la possibilità di costruire un ponte biologico tra passato e futuro per far germinare di nuovo la pianta.

La ricerca pubblicata su Nature Plants è un elenco di priorità: finora non è ancora mai successo che una pianta estinta sia tornata in natura, forse mancano ancora decenni perché succeda, ma il lavoro fatto a Roma Tre ha creato una base importante, una lista in ordine di probabilità e di speranza.

Tra tutte le piante estinte rintracciate in forma secca negli erbari, la ricercatrice ha trovato 160 specie con semi. Alcune con un solo seme, altre con diversi semi. Ogni seme è una possibilità. Ma non tutte le possibilità hanno la stessa probabilità, così il risultato dello studio è un indice della de-estinzione in ordine di probabilità di ritorno.

Ci sono tre cose da guardare in una pianta per valutare le sue speranze di essere de-estinta. Il primo è l'età del campione. Un campione più recente è un campione più in forma. Il secondo è la longevità del seme. Alcune piante producono semi longevi, altre semi meno longevi. La terza è la resistenza al disseccamento.

Albani Rocchetti mi ha insegnato che un seme che resiste bene al disseccamento si chiama «ortodosso». Un seme che resiste meno bene al disseccamento si chiama «recalcitrante». Mettendo in ordine questi tre ordini di punteggio si è arrivati alla classifica. Se un giorno riavremo una specie estinta in natura, sarà probabilmente una in cima a questo elenco. Come il Leucopogon cryptanthus, un'ericacea che cresceva nel sud-ovest dell'Australia, o l'Astragalus endopterus, una pianta del deserto dell'Arizona.

Ce ne sono anche due italiane: Ranunculus mutinensis e Hieracium tolstoii. Provarci non è solo un atto di speranza, è anche un atto di speranza con tanto senso pratico dentro: «Con l'estinzione non perdiamo solo una specie, ma anche una popolazione che aveva un suo ruolo ecologico, una funzione all'interno dell'habitat e dell'ecosistema più ampio, e delle proprietà che magari non conosciamo e che rischiamo di non conoscere mai, farmaceutiche, nutrizionali».

Il futuro di questa ricerca è ancora tutto da scrivere. «La parte di germinazione è molto delicata, perché ovviamente il seme può essere usato una sola volta, e se il processo non funziona è una perdita grave. Poi bisogna vedere se la pianta cresce, se fa fiori, se fa frutti. Quindi ora abbiamo lavorato a una nuova ricerca sulle tecniche più adatte, testate per ora su specie comuni e non estinte».

Le possibilità, quando sarà il momento di provarci davvero, sono tante: metterli in terra, farle crescere in laboratorio, in incubatori con condizioni ambientali ideali, o anche tecniche in vitro per estrarre cellule embrionali e fare colture extra-cellulari. È una strada molto lunga, insomma, ma è il tipo di speranza che ci serve per guardare in avanti.

Sbilanciamoci: anello di congiunzione tra ricerca e attivismo

LAPRESSE

«Sentiamo il bisogno di toglierci dalla postura di chi può solo aspettare le mosse della politica, perché abbiamo capito che non arriveranno. Noi dal mondo della ricerca vogliamo metterci la faccia, contro tutti i discorsi strumentali contro "ecoterroristi" ed "ecomatti" che abbiamo sentito in questo mesi». Federico Fabiano è un ricercatore del CNR che si occupa di dinamiche atmosferiche su vasta scala e di come vengono influenzate dai cambiamenti climatici. Un ambito di studio delicato e specifico, al quale dedica tutta la sua vita, come tante persone dell'accademia italiana.

Dalla posizione di chi offre dati e informazioni ai policymaker e alla società, sta vivendo un momento di frustrazione, nel contesto di un governo che ha preso di mira l'ambientalismo come nuovo totem ideologico e con il discorso negazionista che sembra tornato a essere apertamente praticato. Così, insieme a una serie di colleghi, ha deciso di promuovere un appello, per aggregare tutte le persone che si occupano a vario titolo di clima in Italia dal punto di vista della ricerca, e far sentire la propria voce.

È così che nasce Ora!, cioè Officina della ricerca per l'ambiente, un'iniziativa che ha come epicentro il CNR di Bologna, ma che piano piano si sta allargando alle università di tutta Italia. Nel loro appello si parte dall'alluvione che ha colpito l'Emilia Romagna a maggio, i ricercatori scrivono che «la concretezza del fango che ha sommerso ogni cosa si scontra con l’ipocrisia di coloro che parlano di “conversione ecologica” e di “green economy”, mentre nulla cambia». È un salto di qualità importante per il mondo accademico italiano, che con questa assemblea e questo appello sceglie di avvicinarsi al mondo dei movimenti per il clima, in questo momento sempre più isolati in un discorso pubblico che sta piano piano erodendo le loro ragioni.

Spiega ancora Fabiano: «Io penso che il mondo accademico debba diventare un po' più attivista. Per troppo tempo ho parlato di clima e delle implicazioni ampie delle mie ricerche più alle manifestazioni o addirittura al bar che nel CNR stesso, nel mondo della ricerca sento sempre più disillusione, e allora è giunto il mondo che noi si scenda dal piedistallo per parlare dei problemi del mondo».

La richiesta di Officina della ricerca per l'ambiente è rivolta più all’interno del mondo accademico che all'esterno, è una chiamata alla mobilitazione climatica dei ricercatori. Dal 2019 in poi sono stati Fridays for Future e gli altri movimenti a farsi carico del messaggio della scienza, a consegnarlo come postini efficienti dopo che l'urgenza era rimasta inevasa per trent'anni. Ora si prova a ribaltare lo schema: la ricerca accademica che si mette a disposizione dei movimenti per il clima per rafforzare e amplificare la loro voce. «Il nostro è un appello al mondo della ricerca a sbilanciarsi, a parlare con le persone, non solo con policymaker e stakeholder, ad ascoltare la paura diffusa (e fondata) che il clima e la biosfera stiano andando verso il collasso, e agire».

Nel discorso pubblico attuale in Italia è come se si fosse creata una dicotomia, uno spazio di apparente neutralità dal quale si può dire: «Non stiamo né con i negazionisti, né con gli allarmisti», che però non sono due poli speculari di irrazionalità, come li si vuole presentare. È anzi una lettura pericolosa di quello che sta succedendo. Si può discutere sui toni, sulle strategie, sulla validità dell'uso politico della paura, ma «allarmismo» è semplicemente il messaggio che arriva da tutta la letteratura scientifica sui cambiamenti climatici.

Un collasso è in atto, tutto il mondo è in anomalia climatica. Stigmatizzarlo come catastrofismo e metterlo sullo stesso piano dell'antiscienza dei negazionisti climatici (che il direttore del centro europeo Copernicus sui cambiamenti climatici Carlo Buontempo ha giustamente definito «equivalenti ai terrapiattisti») è un'operazione disonesta. Ed è per questo che la voce che arriva da chi ogni giorno studia questi fenomeni è importante, serve un impegno diverso della ricerca nella società, che vada oltre paper studi e dati, e finalmente sta arrivando.

Siamo nell'anno più caldo mai affrontato dalla civiltà umana?

APN

Ripasso: abbiamo avuto il mese di giugno più caldo della storia, a luglio abbiamo avuto il giorno con la temperatura media globale più calda e la settimana più torrida mai registrata. C'è un'ondata di calore contemporanea in tre continenti, in Cina sono stati raggiunti per la prima volta i 52°C e in Sardegna sono stati superati i 47°C.

Sappiamo che durante il regno di El Niño le cose peggioreranno, il 2024 è già più che attenzionato. Ma soprattutto ci sono già otto probabilità su dieci che il 2023 sarà l'anno più caldo di sempre, spodestando il 2016. È un dato del centro di ricerca Berkeley Earth, che ogni anno effettua un'analisi dei trend in corso per provare a capire come ci posizioneremo, e oggi abbiamo l'80% delle probabilità che a gennaio 2024, quando tireremo le fila per capire che anno abbiamo appena vissuto, il 2023 risulterà essere il più caldo mai affrontato dalla civiltà umana.

Emissioni e diseguaglianze

Associated Press/LaPresse

Una ricerca pubblicata su Nature Energy ha misurato una cosa che intuitivamente sapevamo già, ma è sempre utile attaccarci dei dati. Prendiamo tutti i cittadini dei ventisette paesi dell'Unione europea, dividiamoli in cinque gruppi, da chi fa una vita più comoda e lussuosa (e quindi consuma più energia) a chi fa una vita più spartana, e quindi ne consuma di meno.

Se tagliassimo la domanda di energia del 20 per cento che consuma di più limiteremmo le emissioni del 9,7 per cento. Se tagliassimo la domanda al 20 per cento di chi ne consuma di meno limiteremmo le emissioni dell'1,4 per cento. E questo solo all'interno dell'Unione Europea, senza prendere in considerazione gli spaventosi gap che separano i nostri consumi energetici da quelli del sud globale. È solo un modo per ricordarci che quando parliamo di clima, in realtà stiamo parlando di diseguaglianza.

Pniec bocciato

Il ministero dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica ha finalmente inviato alla Commissione europea la proposta di aggiornamento del Piano Nazionale Integrato Energia e Clima (PNIEC). Ne avevamo già discusso, è arrivata un'analisi sintetica di ECCO, il think tank italiano per il clima, una sorta di pagella dalla quale le prospettive energetiche e di decarbonizzazione dell'Italia escono a pezzi. «Il giudizio è complessivamente sotto la sufficienza», scrivono con tono felpato gli esperti di ECCO.

«Uno scenario poco coerente con una visione di medio-lungo periodo della transizione energetica e climatica del Paese. Il quadro di politiche proposte appare complesso, ridondante e, in diversi casi, contraddittorio rispetto all’obiettivo». La governance è debole, i monitoraggi non collegati a un eventuale miglioramento del piano, le politiche di breve termine non sono allineate agli obiettivi, soprattutto per quanto riguarda quali tecnologie ha senso incentivare, in particolare per edifici e trasporti.

Nel medio termine non c'è una vera prospettiva di uscita dall'utilizzo dei combustibili fossili, soprattutto per quanto riguarda il gas, sul quale continua a regnare una visione emergenziale decisamente di comodo. Manca completamente la dimensione della sostenibilità sociale (a dispetto di quello che dice sempre Meloni nei suoi discorsi), nessuna attenzione a benessere, salute, politiche occupazionali. Il PNIEC non è ancora chiuso, ora si è aperta una finestra di un anno di dialogo con la Commissione per migliorarlo e renderlo più all'altezza degli obiettivi al 2030, 2035 e 2050. Vedremo.

Per questa settimana è tutto, se hai voglia di comunicare con me, scrivimi! L'indirizzo è ferdinando.cotugno@gmail.com. Se hai bisogno di parlare con la redazione di Domani, invece, contattala all'indirizzo mail lettori@editorialedomani.it. A presto, buon weekend!

Ferdinando Cotugno

© Riproduzione riservata