«In Italia si invoca la prevenzione contro gli incendi sempre nell'unico momento in cui non si può fare prevenzione, cioè quando sono già scoppiati.

Poi un'altra stagione passa e ci si dimentica che ai roghi estivi ci si può attrezzare solo d'inverno, preparando il territorio a resistere». Parole di Luca Tonarelli, membro Sisef (Società Italiana di Selvicoltura ed Ecologia Forestale) e direttore tecnico del Centro di addestramento antincendi boschivi della Regione Toscana, l'unica struttura che in Italia sta portando una cultura europea della preparazione anti-incendio.

Un salto necessario, perché non ce la faremo mai a contrastarli se non aggiorniamo la nostra visione al contesto.

Quelli a cui eravamo abituati, prima della crisi climatica, potevano essere combattuti pari a pari, umani contro fuoco, intervenendo soprattutto dall'aria.

Quelli di oggi e degli anni che verranno si sviluppano in un tale contesto di stress idrico e calore che possono solo essere arginati preventivamente.

«In queste condizioni meteo, quando scoppiano sono semplicemente fuori dalla nostra capacità di estinzione». Gli americani li chiamano, con termine suggestivo, megafire, come i mostri di un film di fantascienza.

L’ondata europea

Questa nuova stagione degli incendi è partita in Europa sud-occidentale, seguendo l'andamento delle ondate di calore che si sono succedute da metà maggio: prima il Portogallo, dove a giugno il 97 per cento del territorio era in siccità moderata o grave, poi la Spagna, poi il dipartimento della Gironda in Francia, infine addirittura il Regno Unito.

A metà luglio European Forest Fire Information System aveva diffuso numeri preoccupanti: il ritmo della superficie bruciata era già superiore di quattro volte alla media degli ultimi quindici anni. In questo scenario, l'Italia sembrava non essere lambita dal fuoco, se non per i casi peculiari di Stromboli e Roma.

Ma il nostro territorio è arrivato all'estate in un tale contesto di sofferenza climatica da essere sostanzialmente una grande miccia in attesa di un innesco.

E i primi inneschi di dimensioni rilevanti sono arrivati questa settimana, con due roghi in particolare a preoccupare: quello nel Carso, in Friuli, che ha bloccato autostrada e ferrovia, e portato le prime evacuazioni, e quello in Versilia, a Massarosa.

Siamo ancora nell'ordine delle centinaia di ettari, e non delle migliaia, come successo in Europa e la scorsa estate in Sardegna e Calabria, ma a questo punto sembra solo questione di tempo.

Il problema italiano

(AP Photo/Bernat Armangue)

Il territorio italiano, da un punto di vista del fuoco, ha due grandi problemi. Il primo è una quantità enorme di vegetazione: quando scoppia un incendio ogni albero è un combustibile, nutrimento per il fuoco che avanza.

Anche se tendiamo a dimenticarlo, l'Italia è composta al 39 per cento di boschi, spesso non gestiti, quindi spontanei, fitti, bui e senza strade che li attraversino.

Il secondo è la quantità di «interfacce», punti di contatto tra l'abitato e il bosco, dove il fuoco arriva a lambire le case o le infrastrutture e a quel punto non resta che scappare.

L'Italia è contemporaneamente un paese inselvatichito (la superficie forestale è raddoppiata nel corso della storia repubblicana) e antropizzato, e questa composizione del paesaggio rende complessa la prevenzione.

«Manca proprio la consapevolezza del rischio», racconta Tonarelli, che quando incontra i rappresentanti degli enti pubblici e consulta con loro le mappe del territorio ha imparato che l'unico modo per fargli aprire gli occhi è usare un certo grado di brutalità comunicativa.

«Traccio una X sui paesi immersi nel bosco e dico: questo è indifendibile, se scoppia un incendio qua, non possiamo semplicemente fare niente. A quel punto capiscono».

Il conflitto cl fuoco

(AP Photo/Bernat Armangue)

È lo stesso messaggio inviato quest'anno dall'Unep - l'Agenzia ambiente dell'Onu – a tutti i paesi forestali (come l'Italia) sulla gestione degli incendi: dovete spostare risorse e personale dalla lotta alla preparazione.

Nel confronto diretto col fuoco siamo destinati a perdere, l'unico modo per essere resilienti è adattare il territorio.

«Dobbiamo far passare il messaggio che in una giornata brutta, molto calda e con forte vento, la struttura di contrasto agli incendi può fare poco. E i pericoli sono spesso sulle coste, nella macchia mediterranea, strutture turistiche come campeggi o agriturismi immersi nella natura: bellissimi, ma anche pericolosi».

In Italia questa idea non è stata ancora recepita, viviamo nell'illusione del Canadair che arriva dall'alto e ci salva tutti. L'impreparazione del nostro paese è riflessa nella frammentazione delle competenze.

A livello regionale, lo spegnimento è affidato alla Protezione civile, la prevenzione ai dipartimenti forestali: ambiti che tendono a non parlarsi e non coordinarsi.

«Il risultato è che chi deve spegnere il fuoco non conosce gli interventi sul territorio, gli fa gli interventi sul territorio non conosce le dinamiche del fuoco».

Anche a livello nazionale, l'adattamento climatico è competenza del ministero della transizione ecologica di Cingolani mentre la gestione del patrimonio forestale di quello dell'agricoltura di Patuanelli. Filiere di comando che lavorano in modo non coordinato.

Ci pensa la tecnologia?

Una delle soluzioni proposte più spesso è la tecno-sorveglianza, con sensori, telecamere e - di recente - droni, che però non possono volare proprio nelle situazioni più pericolose, quelle con forte vento. Il monitoraggio è un elemento utile, ma non sufficiente.

Come si prepara il territorio a una stagione degli incendi: il primo passo è diradare, creare degli spazi all'interno della foresta, come i cosiddetti viali tagliafuoco, delle zone dove il fuoco si deve arrestare perché non trova più alberi, rendendo più facile il lavoro delle forze anti-incendi boschivi.

La combinazione di dati meteo e sul campo permette di fare questa gestione nei punti più a rischio: eliminando pochi ettari di boschi se ne salvano migliaia.

O, da un punto di vista finanziario, un euro investito in prevenzione ne vale otto spesi in lotta contro i roghi. Un'altra pratica, già in uso in diversi paesi europei ma ancora solo in via sperimentale e frammentata in Italia, è quella del fuoco prescritto.

Bruciare d'inverno, in condizioni controllate e su pochissimi ettari, la vegetazione più secca e propensa a incendiarsi, per evitare di ritrovarcela come combustibile l'estate successiva.

Sono approcci che richiedono coordinamento, visione d'insieme e un lavoro costante e meticoloso sul territorio, che esca - come va fatto anche nel caso della siccità - dal pensiero dell'emergenza per entrare in quello della consapevolezza.

Non possiamo affrontare gli incendi come facevamo cinquant'anni fa perché non sono più gli incendi di cinquant'anni fa. 

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