Buongiorno, lettrici e lettori di Domani, nuovo appuntamento di Areale, cominciamo senza indugio, ci sono un bel po’ di argomenti di cui parlare.

Si chiamava Wynn Bruce

Partiamo però da Wynn Bruce. È difficile scrivere qualcosa di sensato su un atto così doloroso e assoluto: Bruce era un attivista per il clima, aveva cinquant’anni. Venerdì 22 aprile era la mattina della Giornata della Terra e Wynn si è dato fuoco davanti alla Corte Suprema degli Stati Uniti. È stato soccorso, è stato trasportato in elicottero verso un ospedale, dove è morto poco dopo.

Non ha lasciato molti elementi per interpretare il suo gesto: era l’Earth Day, la Corte Suprema davanti alla quale si è immolato è impegnata (tra le tante altre cose) in una valutazione delicata sul ruolo della Environmental Protection Agency sulla mitigazione delle emissioni, lui era buddista, aveva lasciato un messaggio su Facebook che sembrava suggerire (anche se in modo non così esplicito) la decisione di immolarsi per lo stato del clima.

E poi ci sono le persone che lo conoscevano. Su Twitter, una sua amica, Kritee Kanko (scienziata e compagna di pratica buddista), ha scritto: «È stato un gesto di profonda e coraggiosa compassione, voleva portare attenzione alla crisi climatica». Il Washington Post ha parlato con suo padre, Douglas Bruce, che ha raccontato molte cose sulla complicata vita del figlio Wynn e ha concluso: «Sono d’accordo con chi dice che questo sia stato un atto di compassione e coraggio che derivava dalla sua preoccupazione per l’ambiente».

L’auto immolazione ha radici nella storia del buddismo tibetano, il centro che Wynn Bruce frequentava ha diffuso questo comunicato: «Non avevamo mai parlato di auto immolazione con Wynn, e noi non pensiamo che l’auto immolazione possa essere considerata azione per il clima. Ma se guardiamo al tragico stato del pianeta e al peggiorare della crisi, capiamo perché qualcuno possa aver voluto fare qualcosa del genere».

Ci sono stati molti punti di rottura nella sua vita, il primo a diciotto anni, quando fu coinvolto in un catastrofico incidente stradale che spezzò i suoi sogni. Il suo amico – che era alla guida – morì sul colpo, lui rimase in fin di vita, si salvò, ne uscì con problemi di salute che avrebbe portato per tutta la vita.

Bisogna aver visto un punto di rottura per comprendere un punto di rottura: gli ultimi anni della sua vita erano stati assorbiti dalla paura e dall’ansia per la crisi climatica. Senza la sua voce a spiegarlo, non ci sarà più modo di districare la sua disperazione personale e la sua disperazione collettiva. Non ha forse nemmeno più importanza, se non per chi lo conosceva e lo amava.

Restano il messaggio e resta la lezione. Come ha scritto Jay Caspian Kang sul New York Times: «L’auto immolazione forza i testimoni a confrontarsi con l’intensità della convinzione. È un gesto che stabilisce una connessione interamente personale, la vera domanda non è più: “Perché lo ha fatto?”. La vera domanda che lui ci pone è: “Perché a te non importa quanto importa a me?”». Il futuro a volte può apparire preoccupante e spaventoso, come forse sembrava a Wynn Bruce, che si è ucciso durante l’Earth Day, in una giornata di celebrazione e speranza, costruita intorno alla possibilità di attivarsi e cambiare.

Tante cose possono deviare il corso della disperazione e neutralizzarla, ma quella decisiva, quella che ci aiuta a processare i succhi negativi delle cattive notizie che probabilmente lui leggeva in grande quantità ogni giorno, è stare dentro il mondo, toccarlo, coltivarlo e coltivarsi, decidere di intervenire, a qualsiasi scala, dalla politica allo stile di vita, vale tutto, anche il progetto di cambiare dieta o comprarsi una bicicletta o postare un’infografica su Instagram o partecipare a un incontro pubblico o piantare un albero o raccogliere la plastica sulla spiaggia per un giorno intero. Non tutti questi gesti hanno lo stesso effetto sul clima, ma hanno effetto su di noi, e quindi hanno un valore incalcolabile. Le piccole azioni contano, perché ci salvano la vita.

Douglas Bruce ha raccontato che insieme al piccolo Wynn andavano in canoa nelle Boundary Waters, in Minnesota, quasi al confine col Canada. Era una gita difficile, Wynn aveva solo dieci anni, dovevano portarsi la canoa in spalla tra un lago e l’altro, per raggiungere il punto dove avrebbero campeggiato. «Non ce la faccio, papà», diceva Wynn. E suo padre (che non poteva portare entrambe le canoe): «Ce la devi fare». «Perché?». «Perché io non ce la posso fare senza di te», gli rispose il padre. «Ovviamente ce l’abbiamo fatta. Quella notte, al campeggio, è stato speciale, perché ce l’avevamo fatta insieme».

Due buone notizie in breve, per tirarci su.

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In Slovenia, dopo una serie di mandati dell’ultra populista Janes Janša (uno che si congratulò con Trump per la vittoria. Nel 2020), le elezioni sono state vinte da Robert Golob, liberale e ambientalista.

Storia particolare: è un ingegnere specializzato in energia fotovoltaica, è stato un manager di settore in un’azienda pubblica, prima di essere epurato proprio da Janša. È entrato in un partito ambientalista in declino (e fuori dal parlamento) (vi ricorda niente?), gli ha cambiato nome, gli ha ridato un destino e in pochi mesi ha scalato una montagna e ha vinto le elezioni con un programma a base di ecologia, clima, welfare. Le cose possono davvero cambiare in poco tempo. C’è un patrimonio di voglia di votare per il futuro, va solo compreso e preso.

Steven Donziger è tornato libero, dopo 993 giorni di detenzione, tra carcere e arresti domiciliari. La sua è la storia di un’ingiustizia incredibile, della furia e dell’arroganza di un’azienda fossile (Chevron) nel difendere i propri interessi, ma anche di coraggio e speranza, di voglia di combattere.

Donziger è l’avvocato che dagli anni Novanta difende gli interessi di 30mila indigeni e contadini dell’Amazzonia in Ecuador contro Texaco (oggi Chevron), per una serie spaventosa di perdite di petrolio nel corso delle estrazioni petrolifere nella regione (ottanta volte più estese che nel disastro Deepwater Horizon). Nel 1992 il contratto di Texaco finì, lasciando un ambiente devastato, nel 1993 i locali fecero causa, da allora cominciò la guerra dell’azienda fossile contro l’avvocato che li rappresentava, che ha infine passato oltre due anni privo della libertà per il rifiuto di consegnare informazioni sensibili sui suoi assistiti. Un accanimento che è stato denunciato dall’Alto commissariato delle Nazioni Unite sui diritti umani come «illegale».

Ora Donziger è libero, è di ottimo umore ed è più agguerrito che mai. «Hanno provato a trasformarmi in un simbolo per una campagna di intimidazione, ma alla fine l’esito è stato opposto. Pensavano di spezzarmi, ma hanno creato una situazione in cui oggi ho una piattaforma e una voce. Ora hanno un problema più grande di prima». Amnesty International ha chiesto a Biden un perdono presidenziale, che sarebbe un atto di giustizia e un messaggio alle aziende petrolifere.

La situazione delle foreste globali

Uno degli impegni di più alto profilo della Cop26 di Glasgow era stato la promessa solenne di azzerare la deforestazione entro il 2030. Non era la prima volta che un accordo del genere veniva raggiunto, ma era di gran lunga il più ampio e il meglio finanziato di sempre, così era stato salutato con grande ottimismo. A oggi rappresenta la nostra migliore opportunità per fermare il saccheggio delle foreste tropicali, ma ci sono solo otto anni per metterlo in pratica e per arrivarci il calo deve iniziare subito.

La realtà però continua a essere diversa da quella raccontata con l’ottimismo della volontà dei vertici internazionali. Ogni anno il World Resources Institute pubblica un rapporto sullo stato delle foreste globali, è considerato la fonte più attendibile sulla deforestazione. Nella nuova fotografia appena pubblicata vediamo che nel 2021 il mondo ha perso altri 11,1 milioni di ettari di foreste tropicali, al ritmo incredibile di dieci campi da calcio ogni minuto. Come se in dodici mesi fosse sparito l’equivalente di tutti i boschi che ci sono in Italia.

Secondo Global Forest Watch, il 96 per cento della deforestazione globale avviene ai Tropici. L’aspetto più preoccupante è che un terzo di queste foreste distrutte erano foreste primarie, le più preziose sia per lo stoccaggio di carbonio dall’atmosfera che per la protezione della biodiversità. È come se fosse esplosa una bomba da 2.5 Gt di emissioni di CO2, pari a quelle annuali dell’India.

Il podio della deforestazione, per superficie assoluta, è lo stesso del 2020: al terzo posto la Bolivia, al secondo la Repubblica Democratica del Congo e al primo, con un distacco spaventoso, il Brasile, che lo scorso anno ha cancellato, da solo, oltre un milione e mezzo di ettari di foresta.

A ottobre si vota per le presidenziali in Brasile, forse l’evento politico climaticamente più importante dell’anno, visto che sotto l’amministrazione di Jair Bolsonaro la foresta amazzonica del Brasile ha perso gran parte della sua resilienza e si è pericolosamente avvicinata a un punto di non ritorno, che vedrebbe cambiare in modo irreversibile l’ecosistema, da foresta a savana, con conseguenze a lungo termine sia per il clima che per la biodiversità.

Dal punto di vista della perdita percentuale in rapporto al territorio, i paesi che hanno deforestato di più sono la Bolivia (0,7 per cento del suo territorio), il Laos (1 per cento) e la Cambogia (1,5 per cento).

Ci sono anche delle buone notizie: per il quinto anno consecutivo l’Indonesia – un tempo grande deforestatore globale – ha ridotto drasticamente la sua perdita di alberi, che nel 2021 è stata del 21 per cento inferiore rispetto al 2020. È un trend promettente, che è in linea con l’accordo sulle foreste e che rispecchia sia l’Ndc (impegno nella cornice Cop) preso dal paese sia la regolamentazione molto più rigida sulla sostenibilità dell’olio di palma. La distruzione forestale causata dalle coltivazioni per olio di palma è ai livelli più bassi degli ultimi vent’anni. Questo risultato però rischia di essere messo in discussione con la guerra in Ucraina e la crisi dell’olio di girasole, che ha determinato una corsa globale a olii alternativi (i prezzi dell’olio di palma sono ai livelli più alti da quarant’anni).

Tra gli altri paesi che stanno andando nella direzione giusta ci sono la Malesia e il Gabon. Lo stato nel bacino del fiume Congo è da anni impegnato in una partnership innovativa con la Norvegia, che paga il Gabon in cambio di una protezione attiva e di una gestione sostenibile delle sue foreste.

È stato infine un anno duro anche per le foreste boreali: l’aumento di perdita di copertura arborea tra il 2020 e il 2021 è stato del 29 per cento, e in questo caso è stata la crisi climatica più che la mano umana a determinarlo. In particolare, il 2020 è stato l’anno nero degli incendi boreali, con epicentro negli Stati Uniti occidentali e soprattutto in Siberia.

La Russia ha sperimentato la sua peggiore stagione degli incendi forestali da quando vengono fatte queste rilevazioni, nel 2021 sono stati divorati dalle fiamme 6,5 milioni di ettari. Gli incendi, ricorda il World Resources Institute, fanno parte della storia degli ecosistemi naturali, ma i cambiamenti climatici li stanno rendendo più aggressivi, estesi, difficili da contrastare, quasi cronici. Il paradosso è che mentre Putin sta aggredendo l’Ucraina a ovest, alle sue spalle, anno dopo anno, gli sta bruciando la Siberia a est.

Per questa settimana con Areale è tutto, ci sentiamo sabato prossimo, per consigli, critiche, osservazioni e spunti, scrivetemi a ferdinando.cotugno@gmail.com. Per comunicare con Domani, invece, scrivete a lettori@editorialedomani.it.

A presto!

Ferdinando Cotugno

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