La riforestazione potrebbe raffreddare il pianeta più di quanto si credeva, soprattutto nelle zone tropicali. Tuttavia, anche se si riuscisse a ripiantare ogni albero abbattuto dall’inizio dell’èra industriale, non sarebbe sufficiente a invertire da sola gli effetti del riscaldamento globale. La riduzione delle emissioni rimane indispensabile.

È quanto emerge da un nuovo studio pubblicato su Communications Earth & Environment da un team dell’Università della California, Riverside. I ricercatori hanno simulato gli effetti del ripristino delle foreste su scala globale, riportandole alla loro estensione preindustriale. Il risultato? Una possibile riduzione della temperatura media globale di 0,34 gradi Celsius, circa un quarto del riscaldamento registrato finora.

Il modello

Lo scenario ipotizza un’espansione delle foreste di 12 milioni di chilometri quadrati — circa 40 volte la superficie dell’Italia — un dato in linea con le stime secondo cui il mondo potrebbe ospitare mille miliardi di nuovi alberi. Dall’avvento dell’industrializzazione, si stima che la Terra abbia perso quasi la metà dei suoi alberi originari, pari a circa 3mila miliardi di esemplari.

«La riforestazione non è una panacea», sottolinea Bob Allen, climatologo e autore principale dello studio. «È uno strumento potente, ma va accompagnato da tagli significativi alle emissioni di gas serra». Il contributo innovativo di questo studio risiede nell’aver considerato non solo la capacità degli alberi di assorbire anidride carbonica (CO₂), ma anche il loro impatto chimico sull’atmosfera.

Gli alberi emettono naturalmente composti organici volatili biogenici (BVOC), che reagiscono con altri gas atmosferici generando particelle in grado di riflettere la luce solare e favorire la formazione di nubi, amplificando l’effetto di raffreddamento. Effetti che finora molti modelli climatici non avevano preso in considerazione. «Includendo questi meccanismi, il raffreddamento risultante è ancora più marcato», spiega Allen.

Lo studio evidenzia anche che non tutte le foreste hanno lo stesso impatto. Quelle tropicali si rivelano molto più efficaci: assorbono più CO₂, producono maggiori quantità di BVOC e subiscono meno l’effetto di riscaldamento legato alla riduzione dell’albedo (la capacità della superficie terrestre di riflettere la luce solare), un fenomeno più pronunciato nelle latitudini elevate. Oltre a mitigare il riscaldamento globale, la riforestazione può influenzare anche la qualità dell’aria a livello regionale.

Nel loro scenario di recupero forestale, gli scienziati hanno rilevato una riduzione del 2,5 per cento delle polveri sottili nell’emisfero nord. Nei tropici, però, l’aumento dei BVOC ha prodotto effetti contrastanti: da un lato un peggioramento legato alla formazione di aerosol, dall’altro un miglioramento per quanto riguarda l’ozono. Questi effetti localizzati indicano che anche interventi mirati e su piccola scala possono avere un impatto significativo, spiega Antony Thomas, coautore dello studio e dottorando in Scienze della Terra e dei Pianeti. «Non è necessario riforestare ovunque e subito per ottenere benefici concreti».

Lo scenario ipotizzato dai ricercatori, tuttavia, è difficile da realizzare: prevede la riconversione in foreste di tutte le aree dove un tempo crescevano alberi, incluse quelle oggi occupate da città, coltivazioni e pascoli.

Un esempio positivo arriva dal Ruanda, dove la conservazione delle foreste è sostenuta da un modello economico basato sul turismo. I proventi vengono reinvestiti nelle comunità locali, creando un circolo virtuoso che incentiva la tutela degli ecosistemi.

Lo studio è nato come progetto didattico all’interno di un corso sulla modellistica climatica tenuto dallo stesso Allen e si è evoluto in una pubblicazione scientifica, basata su sofisticati modelli del sistema Terra e su dati relativi all’uso del suolo. Il messaggio finale è chiaro: la riforestazione è una parte importante della soluzione climatica, ma non può sostituire la riduzione delle emissioni da combustibili fossili.

Buchi neri “fantasma”

La Via Lattea è casa di milioni di piccoli buchi neri, nati dal collasso di stelle massive, e custodisce al suo centro un colosso: Sagittarius A*, un buco nero supermassiccio con una massa pari a 4,5 milioni di volte quella del Sole. Ma tra questi estremi, esiste una “terra di mezzo”? La risposta, secondo nuove ricerche, potrebbe essere sì: una dozzina di buchi neri di massa intermedia (IMBH) potrebbe aggirarsi nella nostra galassia.

Invisibili e silenziosi, sarebbero sfuggenti quanto fondamentali per capire l’evoluzione dell’universo. Per anni, gli astrofisici si sono interrogati sulla reale esistenza di questi oggetti celesti, la cui massa dovrebbe collocarsi tra 10mila e 100mila volte quella solare. Mentre la formazione di piccoli buchi neri è ben documentata e ogni grande galassia pare contenere un buco nero supermassiccio, la categoria intermedia resta un enigma.

Le prove raccolte finora sono deboli e frammentarie, in particolare nelle galassie più grandi come la nostra. Ora, però, uno studio dell’Università di Zurigo, in via di pubblicazione sul Monthly Notices of the Royal Astronomical Society, rilancia la questione con un approccio innovativo: simulazioni ad alta precisione dell’evoluzione galattica.

Secondo i modelli, la Via Lattea potrebbe ospitare tra cinque e 18 buchi neri di massa intermedia, non al centro galattico ma sparsi nel disco, come relitti cosmici lasciati dalle fusioni con antiche galassie nane. La nostra galassia, infatti, è cresciuta inglobando numerose galassie più piccole – almeno una dozzina accertate, forse molte di più. Alcune di esse potrebbero aver custodito al proprio interno buchi neri intermedi, che tuttavia non sempre sarebbero migrati verso il centro per fondersi con Sagittarius A*, come ipotizzato finora. In diversi casi, i modelli suggeriscono che questi buchi neri “ospiti” siano rimasti ai margini, liberi di fluttuare nella periferia galattica.

La scoperta è promettente ma non definitiva. Gli autori dello studio invitano alla cautela: i dati non permettono ancora di determinare con precisione la massa o la posizione di questi oggetti misteriosi.

Misterioso Perù

Un’autentica rivoluzione archeologica sta scuotendo le Ande del nord-est peruviano. Il World Monuments Fund (WMF) ha annunciato la scoperta di oltre 100 strutture finora sconosciute nel misterioso sito di Gran Pajatén, gioiello della civiltà Chachapoya nascosto nella fitta vegetazione del Parco Nazionale Río Abiseo, Patrimonio Mondiale dell’Unesco. Finora si conoscevano appena 26 edifici, ma grazie a una spedizione ad alta tecnologia condotta tra il 2022 e il 2024 i cui risultati sono stati appena pubblicati, il quadro è cambiato radicalmente.

Con tecniche di mappatura avanzata come il LiDAR, la fotogrammetria e la registrazione topografica, gli archeologi sono riusciti a penetrare la cortina verde della foresta nebulare e ricostruire con precisione il volto nascosto di Gran Pajatén — senza toccare un solo albero. «Non si tratta più di un sito isolato, ma di un nodo chiave in una vasta rete di insediamenti preispanici interconnessi», ha spiegato Juan Pablo de la Puente Brunke, direttore del WMF in Perù.

Conosciuti come il popolo della foresta nebulare, i Chachapoya vissero tra il VII e il XVI secolo costruendo città e santuari sospesi tra le nuvole, tra i 2.000 e i 3.000 metri d’altitudine. Si distinguevano per l’architettura circolare, i fregi geometrici e le tombe a picco sulle montagne.

Pur resistendo a lungo agli Inca, furono infine assimilati dall’impero poco prima dell’arrivo degli spagnoli. Scoperto negli anni Sessanta, Gran Pajatén ha affascinato generazioni di archeologi per i suoi edifici riccamente decorati e la posizione spettacolare nel cuore della foresta tropicale.

Ma gran parte del sito era ancora un mistero: nascosto, inaccessibile, fragile. Oggi, con le nuove tecnologie, prende finalmente forma. «Quello che abbiamo scoperto non è solo sorprendente per quantità, ma anche per come siamo riusciti a farlo», ha commentato Bénédicte de Montlaur, presidente e CEO del WMF.

«Abbiamo raccolto dati scientifici e immagini straordinarie, proteggendo al contempo un ecosistema tra i più delicati al mondo». Le ricerche indicano che Gran Pajatén era abitato almeno dal XIV secolo, forse molto prima. Tracce di una rete di strade preispaniche lo collegano ad altri siti, suggerendo un sistema territoriale complesso e ben organizzato. In parallelo, il team ha effettuato interventi di conservazione delicati ma essenziali: consolidamento delle murature, rinforzo di scale e rilievi in pietra, riempimento delle giunture con una speciale malta d’argilla pensata per rispettare l’autenticità del sito.

Gran Pajatén, protetto da normative ambientali severe, resta inaccessibile al turismo per salvaguardare il suo ecosistema unico. Tuttavia, grazie alle ricostruzioni digitali e alla documentazione raccolta, sarà presto possibile esplorarlo virtualmente.

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