Il cambiamento climatico non ha un impatto solo sul territorio e sull'economia locale, ma anche sulla globalizzazione: rotte commerciali, catene del valore, flussi di merci e migrazioni. Ovunque ci saranno novità. Carlo Carraro, professore di economia ambientale a Ca’ Foscari e vicepresidente del working group dell’Ipcc sulla mitigazione climatica, ne parlerà il 2 giugno al festival internazionale dell’economia di Torino. Ecco un’anticipazione.

L’aumento della temperatura mondiale come potrebbe modificare le rotte commerciali?

La principale modifica riguarda l'Artico. Qualsiasi cosa noi dovessimo fare, anche se riuscissimo ad azzerare le emissioni, a causa dello stock di gas serra già accumulato in atmosfera, con certezza l'Artico si scioglierà durante le estati per almeno tre-quattro mesi dal 2040. Ciò aprirà almeno nella stagione estiva sia la rotta a Nord-Est sia quella a Nord-Ovest. In questo modo cambieranno in modo radicale i traffici commerciali per una parte dell'anno. Invece di passare a Sud con costi e tempi molto lunghi, le rotte si accorceranno in maniera drastica passando a Nord. Tutte le merci che vengono dall'Est asiatico potranno passare dall'Artico e non da Città del Capo in Sudafrica. Quindi i prodotti costeranno meno, ma ciò è l'unico cambiamento positivo.

Quali sarebbero quelli negativi?

L'incremento del livello medio del mare è inevitabile. Anche se azzerassimo le emissioni, purtroppo guadagneremmo 50 centimetri entro la fine del secolo. Dunque con tempi un po' più lunghi perché il mare sale in maniera più lenta rispetto a quanto si sciolga il ghiaccio. In ogni caso, già prima, con 30-40 centimetri in più, molti porti diventeranno inutilizzabili o dovranno spostarsi o fare enormi investimenti per sollevarsi. Molte città costiere avranno fenomeni frequenti di inondazione. Anche da questo punto di vista le rotte commerciali cambieranno perché alcune destinazioni saranno molto danneggiate dall'incremento del mare.

Cosa accadrà per quanto riguarda le catene del valore?

In questo caso è più complicato perché ci saranno due fenomeni. Prima di tutto in alcune regioni del mondo le produzioni non saranno più possibili, per esempio in Bangladesh poiché sarà inondato essendo un territorio sotto il livello del mare. Molte città costiere avranno problemi di produzione favorendo un reshoring, un riavvicinamento delle produzioni che in queste zone non ci saranno. Poi l'altro problema è quello dei conflitti. In molte aree del pianeta dove abbiamo delocalizzato le produzioni ci saranno dei conflitti per le risorse naturali indotti dal cambiamento climatico. In particolare si verificheranno tensioni, problemi produttivi e migrazioni. Inoltre ci sarà una riduzione dei flussi di merci e una deglobalizzazione perché diventerà troppo rischioso per gli impatti fisici nei trasporti, nelle infrastrutture di trasporto, nei porti e negli aeroporti. Molti luoghi non potranno più essere utilizzati per le produzioni e dovranno spostarsi. L'atteggiamento consisterà nel ridurre il rischio: riavvicinare le catene di valore e ridurre il traffico di merci.  

Oltre al Bangladesh, quali aree saranno soggette a migrazioni?

Ci saranno migrazioni nelle regioni più vulnerabili al climate change, che sono già ai minimi dello stress climatico. Si tratta di quelle più calde: le regioni dell'Africa subsahariana e del Sud-Est asiatico. Senza dimenticare quelle più povere perché più vulnerabili. I ricchi potranno adattarsi, i poveri non avranno le risorse per farlo. Nel Nord del pianeta avremo impatti minori, comunque controllati da misure di protezione. Si esaspereranno le disuguaglianze e aumenteranno le migrazioni, soprattutto interne. Gran parte delle persone non ha le risorse per andare lontano. Ci saranno conflitti locali che renderanno ancora più problematico il commercio internazionale.

L'Europa da sola non può arrestare il cambiamento climatico. Cosa potrebbe convincere la Russia e la Cina a fare di più?

Questo è l'altro grande pezzo mancante. Il primo è la dimensione distributiva, l'equità, la giustizia nel processo di transizione ed è raggiungibile tramite strumenti a sostegno dei più deboli. Il secondo è la cooperazione internazionale. L'Europa non ha fatto abbastanza per coinvolgere gli altri Paesi. L'Europa fa l'8 per cento delle emissioni mondiali. Anche se andiamo a zero noi, non cambia granché. Europa, Cina e Usa rappresentano la metà delle emissioni mondiale. Per fortuna gli Usa con l'amministrazione Biden si stanno muovendo con grande efficacia e ridurranno anche loro le emissioni. La Cina sta facendo passi in avanti, anche se in maniera più lenta rispetto a quanto dovrebbe. Questi tre soggetti sono sulla buona strada. Invece l'altro 50 per cento è composto dall'India, il Brasile, il Sud Africa e la Russia. Dove è più complicato agire per ridurre le emissioni. Serve uno sforzo diplomatico, ma purtroppo la guerra e le tensioni commerciali indotte da Trump e tutte le frizioni a livello internazionali non aiutano. Il G20 produce l'80 per cento delle emissioni: basterebbe un'azione congiunta di questi 20 Paesi per controllare il cambiamento climatico.

La deglobalizzazione avrà un impatto negativo sulla diffusione delle tecnologie?

Oggi la chiave di volta è la diffusione delle tecnologie verdi perché il loro costo è crollato. Produrre energia elettrica con le rinnovabili costa meno che con quelle fossili. I prezzi delle batterie elettriche, delle luci a led e dell'elettrolisi è diminuito del 90 per cento negli ultimi 10 anni. Questo è il driver più importante perché fornisce la convenienza economica al cambiamento. Se queste tecnologie si diffondessero a livello mondiale, sarebbe meno difficile coinvolgere gli altri Paesi (oltre a Ue, Cina e Usa). Inoltre la conoscenza e la ricerca stanno facendo passi da gigante. Si dà molta enfasi al tema del litio, del cobalto e dei minerali rari, ma tra 5-6 anni sarà un problema superato perché avremo la possibilità di usare materiali in gran parte disponibili per fare le batterie. Per esempio useremo il sodio e non diventeremo dipendenti dalla Cina. La ricerca sta sfornando soluzioni a breve termine a questo problema. Gli ultimi 10 anni hanno cambiato la storia del mondo: è un tipping point, come si direbbe nel linguaggio scientifico.

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