Pensavo a Nanni Moretti, al Sol dell’avvenire e alla specifica forma di tenerezza che mi ha suscitato. È la malinconia di una generazione che si sta preparando a congedarsi da noi, che dice a noi che abbiamo venti, trenta o quarant’anni: questo è quello che abbiamo provato a fare, quello che abbiamo fatto e quello che è andato storto. C’è l’esasperazione per il presente, ma è normale, è carattere, è Nanni Moretti fatto da Chat GPT, ma c’è soprattutto la mappa degli errori che hanno oscurato il sole e l’avvenire.

Hanno avuto la loro opportunità, l’hanno fallita, per motivi legittimi e comprensibili, ci hanno lasciato in eredità un mondo fratturato, pieno di potenziale inespresso e con ferite impensabili per chi frequentava le sezioni del Pci negli anni Cinquanta. Moretti individua un errore specifico, non aver sostenuto la democrazia in Ungheria contro i carri armati sovietici, è una cattiva interpretazione di quel presente, ormai vecchia di quasi ottant’anni, un errore che copre più di una generazione, rimpianto, metafora e totem.

Lui gioca a correggerlo con l’ucronia e l’amore per il cinema, funziona, il film è una meraviglia, ma il suo è un privilegio che noi non avremo. Gli errori di questo presente non potranno essere riparati con lo sguardo bonario e auto-assolutorio di un artista che oggi ha trent’anni e che nel 2070 si guarderà indietro per vedere come è andata. Noi dobbiamo pensare solo a quella terra inesplorata che è il futuro. La malinconia che mi è rimasta sotto pelle dopo aver visto Il sol dell’avvenire è che noi abbiamo meno margine di errore e non saremo assolti da nessuno se falliremo. Questo è il numero 121 di Areale, iniziamo.

Altri areali: il senso del confine e il puma al teriyaki

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Mentre il destino giuridico e la vita dell’orsa JJ4 in Trentino continuano a essere un viluppo di cause e ricorsi, mentre altri orsi muoiono, può essere utile guardare cosa succede altrove, per vedere l’interconnessione dei problemi, che non sono mai solo nostri o specificamente nostri, anche se siamo spesso così provinciali da comportarci come se fosse così.

Ogni tanto ci diciamo che il problema degli orsi in Trentino è lo spazio, ed è in parte vero, ma in Montana di spazio ce n’è tantissimo, e la popolazione locale di grizzly e lupi sta lo stesso vivendo un assedio politico, anzi, se possibile ancora più feroce. Insomma, non so se è una consolazione di qualche tipo (probabilmente: no) ma il rapporto con i grandi carnivori non è un problema solo italiano e non è solo un problema di animali grandi in uno spazio piccolo.

Tra i talking point di queste settimane c’è stata la mistica di Yellowstone, cosa è Yellowstone, cosa non è Yellowstone, “lì si che hanno la possibilità di gestire la fauna, non come noi che siamo stretti nelle valli delle Dolomiti”. Può essere utile sapere che lo stato del Montana da tempo ha aperto la caccia al lupo appena fuori il confine di Yellowstone. Confine che i lupi non conoscono, è una linea immaginaria, come ogni confine, che una volta varcata li trasforma da specie da proteggere ad animali da carniere.

Il Montana è uno stato di 380mila chilometri quadrati (il Trentino, per dire, 6mila). Il suo governatore è un repubblicano italoamericano di nome Greg Gianforte, appassionato cacciatore, si è vantato di aver ucciso illegalmente un alce, quella volta è stato multato con 70 dollari, a una cena una volta ha servito puma in salsa teriyaki, non sono dettagli rilevanti, ma nemmeno così irrilevanti, in fondo.

Dopo i lupi, in Montana potrebbe toccare ai grizzly, Gianforte ha proposto una legislazione che permetterebbe ai rancher di ottenere dei permessi speciali per ucciderli. Sono animali protetti dall’Endangered species Act (eredità di Nixon, per altro), e hanno avuto un ritorno notevole nell’area, da quel lato delle Montagne Rocciose se ne contano 2mila. I repubblicani hanno proposto al Congresso un disegno di legge per rendere i lupi cacciabili in tutti gli Stati Uniti.

È una conversazione che si potrebbe avere, questa sui grandi carnivori e le destre globali. Questa ostilità però non segue le linee politiche, la Norvegia, la Svezia e la Finlandia hanno avuto negli ultimi anni governi di colore opposto (la Finlandia lo ha cambiato di recente) che hanno però raggiunto la stessa conclusione: qui ci sono troppi lupi. E così negli ultimi anni si è aperta la caccia, il paese più esposto è la Svezia, dove è in corso la politica di contenimento del lupo più aggressiva del mondo contemporaneo, col mandato di abbattere 75 esemplari su 460. Proporzioni: in Italia di lupi ce ne sono più di 3mila.  

La ministra degli Affari rurali della Svezia, Anna-Caren Sätherberg, ha detto questo: «Vediamo la popolazione crescere anno dopo anno, il livello di conflitto è aumentato, il livello di accettazione è crollato». È un problema, un problema che va affrontato, ma ogni risposta semplice a problemi complessi è una manipolazione della scienza e delle possibilità che ci offre. E vale per i 70 orsi da abbattere in Trentino secondo Fugatti o per i 75 lupi da abbattere in Svezia.

Non si risolve la fatica della convivenza con gli orsacchiotti dei flash mob né con l’adrenalina della polvere da sparo: sono posizioni opposte accomunate dalla difesa del privilegio di non voler mai affrontare le domande vere che questi animali ci pongono: quali sono i confini? Come si vive lungo questi confini?

Prepararci all’estate: la prossima pagina dell’emergenza

L’Emilia Romagna allagata a maggio, dopo mesi di siccità, è diventata un’infografica del sesto rapporto Ipcc-Onu sulla crisi climatica: «La frequenza e l’intensità delle precipitazioni estreme è aumentata dal 1950 in tutte le terre emerse e il cambiamento climatico di origine umana è il principale fattore».

Se andiamo un migliaio di chilometri più a occidente, o se allarghiamo su scala globale, è iniziata la stagione delle ondate di calore a nord dell’Equatore, ed è a quella stagione che ora dobbiamo prepararci. Gli effetti delle temperature estreme sono la prossima emergenza dietro l’angolo per un’Italia che riesce a pensare solo a un problema alla volta e che invece dovrebbe dotarsi di uno sguardo sistemico.

In Spagna l’anomalia termica ha raggiunto gli 11°C sopra le medie, in Asia stiamo assistendo a una sequenza di record di temperature senza precedenti, che rappresenta allo stesso tempo un problema sanitario e uno di sviluppo: le persone muoiono e si rischiano di bruciare decenni di progresso in paesi non attrezzati a reggere.

Secondo un’analisi di Carbon Brief, metà della popolazione globale vive in regioni che hanno registrato la propria temperatura più alta di sempre negli ultimi dieci anni. Il 40 per cento della superficie terrestre non era mai stato così caldo come nell’ultimo decennio e un essere umano su due ha dovuto attraversare il giorno più caldo della propria vita tra il 2013 e il 2023. Il 2022 è stato il quinto o sesto anno più torrido della storia (a seconda dei dataset di riferimento) e l’anno scorso 380 milioni di persone hanno affrontato il giorno più caldo di sempre mai registrato nel posto dove vivono, con i picchi noti dell’Europa occidentale e meridionale e della Cina. Nella maggior parte dell’Europa, il giorno più caldo è stato in una delle ultime quattro estati.

È anche un problema di sviluppo umano, perché con queste temperature estreme ogni conquista è sul piatto. Nell’ondata di calore del 2022, il 90 per cento della popolazione dell’India ha visto aumentare il proprio rischio di soffrire la fame, il reddito o di andare incontro a una morte prematura, secondo uno studio dell’Università di Cambridge. Secondo le normali variabilità del meteo, il subcontinente indiano dovrebbe sperimentare un’ondata di calore estremo ogni trent’anni. Le ultime, devastanti anche in termini di perdite di vite umane, sono invece state nel 2010, nel 2015, nel 2022 e ancora quest’anno, con il 60 per cento del territorio dell’India attualmente in questa situazione.

Con il passaggio alla fase di surriscaldamento naturale con il fenomeno El Niño le cose non tenderanno a migliorare. Secondo l’Università di Cambridge, «l’aumento della frequenza di queste ondate di calore mortali potrebbe invertire tutti i progressi fatti dall’India nel contrasto alla povertà, all’insicurezza alimentare, alla diseguaglianza di genere». Senza un piano di adattamento serio, le temperature estreme potrebbero costare all’India il 2,8 per cento del suo Pil fino al 2050 e addirittura l’8,7 per cento del Pil entro il 2100 (senza contare quindi tutti gli altri disastri climatici). È una prospettiva significativa per quella che sta diventando la popolazione più numerosa al mondo e che corre per trasformarsi in un’economia da 10 triliardi di dollari entro il 2030.

Su una scala completamente diversa, la prospettiva di un’estate pericolosamente calda nelle città italiane sembra fuori dalla conversazione politica, nonostante veniamo dalla più torrida della storia (2022) e dal record europeo di sempre stabilito in Sicilia (2021). Un’altra ricerca, fatta dall’Università di Bristol e pubblicata su Nature, ha identificato le aree al mondo più vulnerabili a un drastico aumento della frequenza e dell’intensità delle ondate di calore. «Temperature che sembrano implausibili finché non le si registrano possono verificarsi dappertutto». È la normalizzazione della scala dell’impossibile nel formato di un termometro, come i quasi 50°C in Canada o i quasi 49°C a Siracusa. Però questi sbalzi non colpiscono tutti i paesi allo stesso modo.

Secondo lo studio, questo è per esempio il principale rischio che ha di fronte l’Afghanistan in mano ai talebani e già in siccità da anni. Altri epicentri di pericolo sono il Centro America, la Cina e, ancora una volta, l’Europa. «I governi devono prepararsi in anticipo alle ondate di calore, creando dei rifugi nelle città e preparandosi a ridurre le ore di lavoro all’esterno. La preparazione salva vite umane». Niente di tutto questo sta accadendo in Italia.

Farsi arrestare camminando piano al centro della strada

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A volte mi capita di camminare lentamente sulle strisce pedonali, quando attraverso la strada. Di rallentare consapevolmente il passo, rivendicare quello spazio e quel tempo, percepire uno sguardo esasperato dall’auto che aspetta. Non ho mai propriamente scelto di farlo, mi sono solo accorto che lo faccio, una specie di tattica privata che Milano – piccola città di automobilisti aggressivi – mi ha quasi evocato. Nel Regno Unito di questi tempi si può essere arrestati perché si cammina così, lentamente, al centro della strada.

Il Regno Unito oggi sembra un esperimento: quanti elementi di distopia si possono aggiungere in una società democratica prima che collassi?

Da giorni Just Stop Oil (che in autunno avevano inaugurato la campagna delle zuppe e delle opere d’arte) ha scelto questa forma di protesta, slow march, la marcia lenta al centro delle strade. Stanno iniziando ad arrivare i primi arresti, giustificati legalmente da una nuova norma approvata come un riflesso condizionato da un governo sempre più inquietante. Suella Braverman, la stessa ministra che sta portando avanti la campagna per deportare migranti da tutto il mondo in un paese a caso al centro dell’Africa (il Ruanda), ha fatto approvare questo nuovo Public order Act, che dà alla polizia britannica il mandato di arrestare chi fa le slow march.

C’è una parola che Braverman usa spesso: «Selfish», egoisti. Attivisti egoisti, ed è un’accusa bizzarra anche solo da un punto di vista logico. Si possono discutere le tattiche, le strategie, gli obiettivi politici, il linguaggio di gruppi come Just Stop Oil. Ma egoisti?

Poi c’è la scelta di linguaggio di Just Stop Oil, la lentezza come contenuto politico. Siamo abituati a percepire le proteste su un asse che va da «piano e moderato» a «veloce e radicale»: nelle manifestazioni si cammina piano quando è tutto tranquillo, si corre quando c’è conflitto. Invece è un’idea interessante, questa di camminare piano e inesorabilmente verso qualcosa come una forma di conflitto radicale. C’è l’eco di antiche disobbedienze civili che hanno fatto la storia, e c’è anche una sorta di messaggio di fermezza morale: andiamo piano, facciamo cose innocue, atti umani nella loro funzione più basilare (camminare, occupare spazio, parlare), per bloccare così la frenesia vorace dei 125 nuovi progetti oil and gas che il Regno Unito mira ad approvare entro il 2025.

Non è detto che funzioni, e niente funziona in senso isolato ed è tutto un disegno più grande, ma è interessante.

Lake Mead, l’inconscio e le storie di clima

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Claude Russell Pensinger aveva 52 anni nel 1998, quando, semplicemente, sparì nel nulla, e nessuno seppe più niente di lui, se fosse vivo, scappato, morto o cosa. Donald P. Smith aveva 39 anni nel 1974, quando decise di fare una nuotata nel giorno sbagliato, non conservò abbastanza energie per tornare a riva e nessuno lo vide più. Thomas Erndt aveva 42 anni nel 2002, anche lui aveva fatto un tuffo, da una barca sul lago, e non è più riemerso. Un altro uomo di cui non si conoscono ancora il nome o l’anno di morte era in una botte, il suo corpo aveva ferite da armi da fuoco, la storia di un omicidio, ma non si sa di chi, perché o quando.

Sono i corpi che il feroce abbassamento del livello del Lake Mead negli Stati Uniti ha restituito in questi mesi. La città più vicina è Las Vegas, il posto assetato per eccellenza.

Lake Mead è il più grande bacino artificiale degli Stati Uniti, creato dalla Diga di Hoover nel 1930, il più vasto esperimento di dominio sull’acqua mai tentato, un enorme paese che è diventato quello che è anche (c’è chi dice: soprattutto) così, addomesticando l’acqua, la rabdomanzia tecnologica ha praticamente creato tutto quello che c’è a ovest del centesimo meridiano. Ma la siccità decennale, quasi cento anni dopo, ha spinto quei bacini al collasso e come un inconscio che si spalanca in una crisi psicotica, ora sta restituendo i cadaveri di gente ammazzata o annegata decenni prima.

Una contro rimozione che mi ha fatto pensare a un articolo polemico, molto polemico (e anche un po’ risentito sul piano personale) di Jeff VanderMeer, romanziere di storie bizzarre, creatore di zone di esclusione narrative, uno degli scrittori più contemporanei e complessi che ci siano. «La fiction climatica non ci salverà», scrive VanderMeer. Dice che le chiediamo speranza, previsioni, soluzioni, ma non è quello che deve fare la narrativa, non è a quello che serve. Se ti piace una polemica ben costruita, leggilo: se la prende con Amitav Ghosh, Kim Stanley Robinson, Richard Powers.

«Noi esseri umani tendiamo a essere pessimi utilizzatori di strumenti, pur usandone tantissimi», scrive, suggerendo che stiamo usando male anche gli strumenti della narrativa, il cui unico scopo è creare una realtà credibile, non fornire indicazioni di policy, non prevedere il futuro, non mobilitare. «Per me, la miglior climate fiction usa la sua conoscenza del clima tra le righe, non in primo piano».

C’è qualcosa di utile in questa visione: la narrativa climatica (genere ormai quasi soffocato da se stesso, nel suo recinto sensazionalistico e nella sua iper agitata ricerca di attenzione e commercio) non è fantascienza, non deve essere «rapporti Ipcc con dei personaggi dentro», ma dovrebbe essere più sottile, «permettere al lettore di vivere i differenti effetti psicologici a cascata della realtà della crisi climatica». Il clima nella nostra mente, non il clima nella nostra società. Come cambia i nostri processi più intimi, più profondi, più primari. Per esempio: com’è ritrovare dopo trent’anni, e grazie a una terrificante siccità, il cadavere di una persona che avevi amato e che non sapevi nemmeno se fosse morta?

Siamo arrivati alla fine, buon sabato, buon fine settimana, se hai voglia di mandarmi auguri, messaggi di affetto o bandiere, critiche o suggerimenti di letture per l’estate, l’indirizzo è: ferdinando.cotugno@gmail.com. Per comunicare con Domani, invece, lettori@editorialedomani.it

A presto!

Ferdinando Cotugno

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