Nella sede di Lloyd’s di Londra c’è un libro compilato a mano da 250 anni: si chiama Casualty Book, è un annuario di tutti i disastri marittimi delle navi cargo coperte da una polizza assicurativa del gruppo fondato alla fine del 1600.

Il libro in sé è un enorme tomo di pelle con un significato ormai cerimoniale ma con dentro la storia del mare, un elenco sobrio e senza enfasi di sommersi e di salvati. Da secoli, dentro questi volumi (uno per anno) ci sono le tracce della storia navale umana e dei suoi fallimenti.

Un reporter della BBC è andato a cercare l’annotazione del disastro dell’Endurance in Antartide, abbandonata nel ghiaccio nel 1915. Ha dovuto cercare un po’, perché il naufragio della nave era stato registrato in ritardo rispetto alla data storica: negli anni Dieci del secolo scorso le persone e le notizie viaggiavano lentamente, i fatti dell’Endurance ci misero un anno per arrivare dal Polo Sud fino al libro sacro dell’assicuratore londinese.

L’annotazione è ancora lì, nel diario dei nostri naufragi. Questo è il numero 117 di Areale, come è stato il tuo mese di marzo? Il mio rivedibile, ma non dimenticabile, in ogni caso io mi sono dimenticato di festeggiare con te, con voi, con me, con Domani, il fatto che questa newsletter ha compiuto due anni di vita. Auguri a noi. Cominciamo.

Emorragia di credibilità

Mancano ancora sette mesi alla Cop28 di Dubai, ma il prossimo vertice dell’Onu sui cambiamenti climatici continua a soffrire di un’emorragia di credibilità che sembra impossibile da arrestare, iniziata con la nomina a presidente del vertice Onu dell’amministratore delegato della Adnoc, l’azienda petrolifera di stato, l’undicesima società di idrocarburi al mondo per dimensioni.

Gli Emirati hanno di recente approvato il terzo piano più grande al mondo di espansione della produzione di petrolio e gas, sorpassato solo da quelli di Arabia Saudita e del Qatar. Si tratta di una crescita di 7,5 miliardi di barili di petrolio, con un investimento di 150 miliardi di dollari per dare vita a un programma di «crescita accelerata di petrolio e gas». Secondo i dati dell’Agenzia internazionale di energia, solo il 10 per cento di questa espansione sarebbe compatibile con gli obiettivi di net zero.

La figura di Sultan Al Jaber, presidente di Cop28 e ceo di Adnoc, sembra racchiudere in sé tutte le contraddizioni della politica climatica globale, il crepaccio tra le parole, le intenzioni, gli impegni e le policy. In una conferenza a Dubai dal titolo Road to Cop28, Al Jaber ha detto: «Dobbiamo rapidamente ridurre le emissioni»; un articolato profilo su di lui uscito per Bloomberg ha ricordato come più volte il «petroliere che vuole decarbonizzare senza rinunciare al petrolio» abbia confermato come l’obiettivo di contenere l’aumento delle temperature a massimo +1.5°C sia «non negoziabile». Tutto in contraddizione con le politiche reali degli Emirati.

La maggior parte dell’espansione avverrà nel contesto del progetto Upper Zakum, un giacimento petrolifero a nord-ovest di Abu Dhabi, «il secondo giacimento petrolifero offshore più grande al mondo», come si legge sul sito della stessa Adnoc, per il quale verranno costruite quattro isole artificiali, per ospitare 450 pozzi e 90 piattaforme.

Nella migliore delle ipotesi, Al Jaber si troverà nella posizione di chiedere alla comunità mondiale quello che internamente non ha nessuna intenzione di fare negli Emirati. Nella peggiore, invece, si adopererà attivamente, come già successo con la presidenza dell’Egitto produttore di gas nel 2022, per tenere le risoluzioni finali della Cop28 lontane dall’unico risultato che possa salvare il processo di decarbonizzazione, l’inserimento nel testo finale dell’evento di sei parole: «Phase out of oil and gas».

La Cop28 è una conferenza Onu sul clima diversa dalle altre non solo perché si svolge in un contesto politico ad alta intensità fossile, ma anche perché coincide con il Global Stocktake, la valutazione ciclica che fa l’Onu nel processo delle Cop sull’andamento della riduzione delle emissioni paese per paese. I nuovi dati saranno presentati a Dubai ed è plausibile che saranno sconfortanti, tutti gli ultimi rapporti dell’Onu (l’Emission gap di Unep, il sesto rapporto dell’Ipcc) hanno mostrato come la voragine tra ciò che andrebbe fatto per salvare l’obiettivo 1.5°C e cosa viene fatto si stia allargando.

Cop28 servirà anche a rendere operativo il fondo loss and damage per i risarcimenti climatici creato a Sharm el-Sheikh a novembre. A Luxor, in Egitto, si è riunita per la prima volta la commissione mista di paesi ricchi e paesi poveri che dovrà stabilire regole e funzionamento del nuovo fondo.

Non è andata benissimo, le parti sono lontane su tutto: come raccogliere le risorse, come usarle e a chi destinarle. Uno dei punti più controversi è proprio la lista dei paesi donatori. Il grande dilemma su cui si arrovellano tutti è se ci sarà la Cina, che è il primo paese per emissioni al presente, in un futuro non lontano diventerà anche il primo in assoluto per contributo alla crisi climatica, ma ha ancora emissioni basse se invece le rapportiamo al numero di abitanti.

Un altro punto controverso sulla lista dei donatori è se ci dovranno essere i petrostati del Golfo, che non sono nell’elenco delle economie sviluppate dell’Ocse considerato come punto di partenza per costruire la lista, ma sono a oggi quelli che più stanno contribuendo alle cause del disastro climatico. Un altro tema che Cop28 si troverà a discutere in aperto conflitto di interesse.

Il futuro dell’Ipcc

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Un altro tema delicato sul quale dobbiamo tornare è la sintesi finale del sesto rapporto Ipcc. Avevamo già parlato di come una serie di paesi avessero lavorato dietro le quinte per far avanzare la propria agenda di priorità dentro le 37 pagine di sintesi, che si trattasse di cattura e stoccaggio della CO2 e protezione del futuro dei combustibili fossili. Poi sono uscite altre informazioni, grazie a un leak di Scientist Rebellion, su quanto paesi grandi produttori di carne come Brasile e Argentina abbiano operato per mettere in secondo piano il ruolo dei sistemi alimentari e in particolare degli allevamenti intensivi nel disastro climatico.

In una prima bozza l’Ipcc sosteneva nella sintesi il potere di una dieta vegetale per ridurre le emissioni del 50 per cento confrontate su quella occidentale ad alte emissioni. Il testo finale contiene invece una formula molto più prudente, propone l’adozione di «diete sane, bilanciate e sostenibili», scelta di parole più vaga e meno minacciosa per l’industria della carne.

Qui emerge un problema più ampio su come l’Ipcc sceglie di intervenire nel dibattito pubblico globale, alla luce di tutti i compromessi geopolitici che si intravedono anche nella sintesi pubblicata il 20 marzo. Secondo Kevin Anderson, docente di Energy and climate change alla University of Manchester, l’effetto di questi compromessi è che il testo finale arriva a smorzare il vero senso di urgenza che gli scienziati avrebbero voluto trasmettere nel rapporto. A partire dalla data di azzeramento delle emissioni, perché c’è una bella differenza tra «i primi anni del decennio che inizia nel 2050», come si legge nel testo che è stato diffuso, e il 2040, dove sembrano convergere i modelli, per avere una possibilità su due di tenere l’aumento di temperature entro +1.5°C.

Le simulazioni che vengono scelte per dare le indicazioni ai policymaker, secondo Anderson, fanno troppo affidamento su assunzioni basate sull’andamento dei prezzi e sulla tecnologia, e poca sui cambiamenti sociali necessari per rimediare alla crisi climatica, con un riferimento molto, troppo diretto a tecnologie speculative che (forse) avremo domani invece che su policy efficaci ma complesse da vendere politicamente nel presente (come il discorso sul cambiamento delle diete).

«È chiaro che non superare 1.5°C o 2°C richiederà cambiamenti drastici in ogni aspetto della vita moderna». Torniamo non solo alla necessità di un phase-out molto veloce delle fonti fossili (servirebbe iniziare a ridurre dell’11 per cento all’anno da subito per stare nella finestra di 1.5°C, e non mi sembra stia accadendo), ma anche – per esempio – «passare dal possesso di massa di auto all’espansione massiccia di sistemi di trasporto pubblico» ma soprattutto «la rapida riduzione del consumo energetico e materiale», per «riallocare la capacità produttiva della nostra società, passando dall’abilitazione dei consumi per pochi a un’idea più pubblica e ampia di prosperità».

Tutte cose che l’Ipcc non è in grado o non può scrivere nei suoi rapporti, quindi quello che emerge è che – benché le notizie nei rapporti siano dure e difficili da mandare giù – sono comunque più prudenti e conservatrici di quanto sia la realtà.

Il ritorno del traffico di specie in via di estinzione

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C’è un aspetto della vita pre-pandemica che sta piano piano tornando alla «normalità» ed è qualcosa che non avremmo voluto rivedere, uno dei pezzi della «normalità» più tossici e pericolosi (e che in parte sono stati tra le condizioni che ci hanno portato al caos della pandemia). Si tratta del traffico illegale di specie selvatiche.

Secondo il sito specializzato MongaBay i numeri sono tornati a crescere, non a caso si tornano a vedere i grandi sequestri di materiale illegale frutto di bracconaggio, come quello avvenuto il 20 marzo in Vietnam, dove le autorità hanno sequestrato 7 tonnellate di zanne di elefante nel porto Haiphong.

«Il traffico di specie selvatiche sta gradualmente tornando alla normalità, dopo l’impatto della pandemia sul commercio globale». Non siamo ancora lì, ma ci stiamo arrivando. I numeri di riferimento sono quelli del progetto di monitoraggio C4ADS, attivo dal 2013. I dati mostrano come il commercio illecito di avorio, di corni di rinoceronte e di pangolini nel 2022 sia ancora più basso rispetto al 2019, ma già superiore al 2020 e al 2021.

Il traffico è ripreso soprattutto via mare, più che via terra o via aria, il 50 per cento dei sequestri dell’ultimo anno era su navi cargo. Sono stati in tutto 487 i carichi intercettati nel corso dell’ultimo anno. Un dato preoccupante è che lì dove le riaperture sono avvenute prima, il traffico è ripreso in numeri maggiori, quindi c’è una correlazione tra riapertura del commercio e delle rotte e crescita del traffico di specie in via di estinzione, oggi ancora molto lento in Cina, dove il lockdown è durato fino al 2023, ma già a ritmo sostenuto per esempio in Malesia, che ha riaperto molto prima. Una situazione da tenere sotto controllo.

Siamo arrivati alla fine di questo numero di Areale, se hai voglia di scrivermi l’indirizzo lo conosci: ferdinando.cotugno@gmail.com. Se hai voglia di comunicare con Domani, invece, scrivi a lettori@editorialedomani.it

Un abbraccio,

Ferdinando Cotugno

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