Gli astri si stanno allineando per la prossima Cop29 a Baku, in Azerbaigian: è l'unico paese su cui la Russia sembra intenzionata a non porre il veto e l'Armenia ha annunciato che non si opporrà, come gesto di distensione.

L'Azerbaigian di fatto rischia di ottenere l'organizzazione di una conferenza del clima come premio per aver vinto una guerra di aggressione. Oltre all'umiliazione per l'Unione europea (il veto di Putin ha colpito soprattutto la Bulgaria), sarebbe la terza Cop di fila in un paese produttore di combustibili fossili, con una storia di violazione dei diritti umani e senza spazi per le proteste.

C'è una trasformazione in atto nell'esperimento trentennale costruito dall'Onunel 1992, pensato per affrontare la questione climatica in modo inclusivo, aperto, democratico, diventato invece a Dubai un monumento alla paranoia, sempre più ostile all'attivismo e all'ambientalismo.

Ieri era venerdì di sciopero per il clima: come ad ogni Cop i movimenti hanno portato avanti la loro protesta. Gli slogan, i cartelli, la rabbia, la paura erano quelli di sempre. La cosa a colpire, però, era il fatto che fossero ormai poche decine a protestare.

Erano gli ultimi superstiti del movimento del clima alle Cop. Negli anni era diventato oceanico, ora è ai margini. Gli attivisti erano una forza motrice del cambiamento, oggi sono un mal sopportato elemento di colore, non solo per il paese ospitante ma anche per le Nazioni Unite.

Spazi limitati

Alla Cop28 si protesta in uno spazio delimitato e prescritto, stretto come una gabbia a cielo aperto, chiunque non rispetti le rigide regole viene cacciato dalla Cop: non si possono nominare paesi, non si possono nominare aziende.

Non si può fare e dire praticamente niente, ma solo in orari prescritti e previa autorizzazione scritta. È questa l'idea di società civile secondo l'Onu.

È poco più di una recita, la parodia di una manifestazione a cui i pochi attivisti che si sono potuti permettere il costoso viaggio per essere qui sono costretti a obbedire. Tutto quello che rimane è il silenzio e così ieri sono entrati in plenaria: muti, col pugno alzato.

Due anni fa a Glasgow nel weekend centrale di COP26 erano scese in strada 150mila persone per mettere pressione ai delegati: una delle più grandi manifestazioni europee dopo lo scoppio del Covid. Non lo sapevamo, ma era anche l'arrivederci delle COP alla democrazia, prima della possibile tripletta della repressione, Egitto, Emirati e Azerbaijan. A Sharm el Sheikh i movimenti scelsero l'unica opzione possibile: protestare contro la Cop dentro la Cop, nello spazio affidato all'Onu.

Pur con tutti i compromessi del caso, nella Cop27 c'erano un'atmosfera vivace, di ribellione costante, e la manifestazione fu corteo spontaneo, disordinato e arrabbiato di migliaia di persone, che protestavano per il clima e contro la violazione dei diritti umani in Egitto. Era stato un momento importante per il movimento, una saldatura tra le battaglie.

Un anno dopo a Dubai di quelle migliaia di persone ne è rimasto un centinaio, gli ultimi a credere che valesse la pena di volare fino a Dubai per farsi sentire. Business e autoritarismo: è anche da qui che viene la crisi di credibilità della Cop, che solo un documento chiaro sul phase-out potrà invertire: ieri sono uscite le prime bozze ed è ancora tutto aperto e fumoso.

Gli attivisti sono stati espulsi dal processo proprio mentre i lobbisti si moltiplicavano: sono due tracce che raccontano la stessa trasformazione. L'Onu, custode del processo, sembra aver rinunciato a garantire spazi di partecipazione.

Logoramento

Fino all'anno scorso il suolo della Cop era un santuario di libertà di espressione. Quest'anno, nel patto delle Nazioni Unite col presidente petroliere di COP28 Sultan al Jaber, anche quegli spazi di libertà sono diventati merce di scambio. Climate Action Network, la rete delle organizzazioni ambientaliste, ha denunciato che «la società civile sta affrontando restrizioni senza precedenti, chiediamo urgentemente all'Onu di proteggere la libertà di parola e di manifestazione».

Non era mai successo che l'integrità democratica fosse chiamata in causa in modo così diretto. È stata anche vietata la kefiah, per la solidarietà con Gaza si può mostrare solo l'immagine di un melone, simbolo criptato della causa.

I pochi spazi concordati di protesta recintati vengono chiusi all'improvviso, con scuse bizzarre: perché c'è dell'equipaggiamento elettrico vicino, o perché fa troppo caldo. Come ha spiegato Lise Masson, di Friends of the Earth, «a questa COP28 lo spazio di protesta è stato sterilizzato».

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