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Avviso: questa settimana parliamo (anche) di ottimismo. Iniziamo!

La grande accelerazione

Se il mondo cambierà come speriamo che cambi, noi da cosa ce ne accorgeremo? Non suonerà una campanella, non ci sarà nemmeno un risveglio improvviso dentro un’estetica solarpunk, non verranno letti annunci alla nazione. La transizione è difficile da vedere, perché è ancora troppo lenta ma anche perché ci siamo dentro, non la percepiamo proprio come è impossibile per un bambino accorgersi di crescere in altezza.

Ma ci sono dei segnali oggi che ci dicono come la transizione stia effettivamente avvenendo. È partita in ritardo ed è piena di contraddizioni, ma avanza, è importante visualizzare i progressi di questo lavoro, soprattutto nel momento in cui ci avviamo ai due inverni più duri e complicati della nostra storia, nel punto peggiore del groviglio fossile nel quale ci siamo cacciati.

È dal fondale che si inizia la risalita. Il centro studi Bloomberg NEF l’ha chiamata «Grande accelerazione dell’energia pulita».

È come un modulo che si compone per stadi, un pezzo dopo l’altro.
Ci siamo accorti che l’energia pulita aveva ragioni climatiche ed era ormai vent’anni fa.
Poi ci siamo accorti che l’energia pulita era diventata anche l’energia più economica al mondo, ed è successo nello scorso decennio. Ora ci siamo accorti che l’energia pulita è anche quella più sicura e cooperativa al mondo.
Non avremmo dovuto aspettare di essere lasciati al freddo da un dittatore o di vedere l’ennesimo gasdotto scoppiare in una bolla di metano, ma ormai ci siamo. Il «trilemma dell’energia» – sostenibilità, economicità, sicurezza – va tutto nella stessa direzione. Abbiamo una crisi climatica, finanziaria e geopolitica in atto e la risposta a tutte e tre le domande è la stessa.
Installate.
Quelle.

Maledette.
Rinnovabili.
E sta accadendo, in modo diseguale e disorganico, ma sta accadendo. Il futuro dell’energia si sta componendo davanti ai nostri occhi e il ritmo che avranno i paesi nella transizione determinerà il loro posto dentro l’economia del futuro e sì, Italia, sto parlando di te. Il futuro appartiene a chi ci arriverà prima.

C’è un rapporto del centro studi Ember che ci offre la prima chiave di lettura per questa botta di faticoso e freddoloso ottimismo autunnale: grazie all’aumento di solare ed eolico, nell’ultimo anno ci siamo risparmiati un aumento del 4 per cento di generazione elettrica da combustibili fossili. Abbiamo evitato 230 milioni di tonnellate di emissioni di CO2 e nel farlo abbiamo anche risparmiato 40 miliardi di dollari. Pezzi che si allineano. Anche lì dove siamo abituati a cercare nuove colpe.

In Cina le rinnovabili hanno impedito che le fossili aumentassero dell’1 per cento, Pechino aggiungerà prima del 2025 1,2 TW di eolico e solare. Il disegno più grande è che la domanda energetica è cresciuta, ma questo incremento non è stato fatto con combustibili fossili, che sono rimasti quasi uguali a quelli dell’anno scorso (+0,1 per cento). È vero che dobbiamo invertire il corso, ma il primo passo per invertire è frenare. E stiamo finalmente frenando.
Come ha scritto Bloomberg, possiamo anche smettere di chiamare le rinnovabili «energia alternativa», perché davvero qui non c’è più nessuna alternativa, almeno per chi non vuole morire di guerra, povertà o disastri naturali. Entro la fine di quest’anno il solare sarà cresciuto globalmente di 245 GW, il 38 per cento in più dell’anno scorso. Entro il 2025 ci sarà capacità di produzione fotovoltaica globale per 940 GW: accadrà quando si rilasseranno le strozzature nelle catene di fornitura mondiali, quelle che nel 2021 hanno fatto cancellare o rinviare un quarto delle installazioni di fotovoltaico in Europa per mancanza di materiali o materie prime.

E qui c’è un ultimo tassello del discorso: non si è parlato abbastanza dell’Inflaction reduction act (Ira),  la legge sul clima approvata ad agosto dal Congresso degli Stati Uniti, la grande leva fiscale per creare un’economia americana della decarbonizzazione. È uno dei riflessi del nostro pessimismo interiorizzato, si è discusso di più delle (enormi, e oscene) difficoltà nel far approvare la versione precedente, il Build back better, che del fatto che poi una sua variante (ridotta, ma comunque enorme) è alla fine riuscita a diventare una legge, e che legge: la più ricca manovra climatica al mondo. Ne ha scritto Robinson Meyer in un articolo per The Atlantic che si intitola: «L’economia del clima sta per esplodere».

L’analisi parte da un report di Credit Suisse. Secondo la banca, stiamo ancora sottovalutando l’Inflaction reduction act, che ha abbastanza potenza di fuoco da plasmare tutta l’economia americana per i decenni che verranno. Anche le sue dimensioni finanziarie sono basate su stime al ribasso, comprese quelle del Congresso che ha votato la legge.

La maggior parte delle misure contenute nell’Ira infatti non hanno veri e propri limiti di spesa, perché sono crediti fiscali. La previsione di 374 miliardi di dollari in investimenti attivati per l’energia pulita grazie alla legge è, appunto, solo una stima. La cifra reale secondo gli analisti di Credit Suisse potrebbe essere il doppio. E in tutto potrebbe catalizzare 1,7mila miliardi di dollari di capitali privati in dieci anni. Ed è qualcosa che i repubblicani, se mai tornassero alla Casa Bianca o vincessero le elezioni di midterm, non avrebbero interesse a smantellare, perché gran parte della crescita e dell’occupazione effetto della legge saranno negli stati che controllano.

La cosa più importante di tutte è che l’Inflaction reduction act «cambia la narrazione da mitigazione del rischio a opportunità da cogliere». Ci porta in un livello di realtà nel quale il pericolo più grande è perdersi le opportunità della transizione, non difendersi da essa (che è invece da anni, per inciso, la postura di tutta l’élite italiana). E ci sarà anche un cambiamento al livello delle risorse umane, della “desiderabilità” di lavorare in campo climatico, un settore che ha davvero bisogno delle migliori menti di questa generazione, in ogni campo, e all’intersezione di tutti i campi.  

Scrive Meyer: «Ero un nerd e quando sono cresciuto guardavo alla scena delle startup della mia èra, Twitter, Facebook, Flickr. All’improvviso lavorare in quel settore della tecnologia passò da scelta di carriera per imbranati ottimisti a opzione di default per i più ambiziosi e istruiti. Uno switch simile arriverà per le aziende che lavorano nella crisi climatica. L’opportunità sarà troppo grande, le risorse troppo persuasive, i problemi troppo intriganti».

Given to fly: l’aviazione, la libertà e la decarbonizzazione

Ci sono un po’ di notizie dal mondo dell’aviazione. Il gesto di volare, la possibilità di volare e il suo ruolo in un futuro decarbonizzato, sono uno degli argomenti sui quali è più difficile discutere in modo laico, perché non c’è niente di laico nel nostro rapporto con gli aeroplani, e i posti dove ci portano, e le possibilità che ci aprono.

Parlare serenamente di aerei e clima è difficile quanto parlare serenamente di carne e clima. È naturale che sia così, la vita contemporanea è plasmata dal gesto di volare come poche altre cose: gli aerei hanno cambiato le professioni, le relazioni, la forma stessa del mondo. È qualcosa a cui non si può rinunciare. Chi lo fa (e ne conosco), fa bene a farlo. Ma un mondo senza la libertà di volare non è un mondo desiderabile. Dunque l’aviazione deve cambiare. E cambierà. Il punto è se cambierà abbastanza e abbastanza in fretta.

L’organo diplomatico più importante dell’aviazione mondiale si chiama International civil aviation organization - Icao. Dopo anni di trattative, ha annunciato l’obiettivo del settore: non aggiungere più emissioni in atmosfera a partire dal 2050. Può sembrare poco, net zero al 2050 è quasi un automatismo mentale, ormai, ma è un’enormità per un settore che non ha nemmeno iniziato a decarbonizzare, dove la sostenibilità passa solo da due cose: ricerca tecnologica in carburanti compatibili col clima o smettere di volare.

Al momento l’annuncio è allo stesso tempo importante – perché smuove il settore, toglie alibi ai privati – e irrilevante, perché non è vincolante, non ha timeline, non ha restrizioni e non ha sanzioni, è poco più di un invito. Però lo prendiamo e lo portiamo a casa: se ne parla nel 2050.

Il punto è che l’aviazione è uno dei settori hard-to-abate, in cui sarà più difficile azzerare le emissioni, e la ricerca richiederà una montagna di soldi, nell’ordine di 4mila miliardi di dollari entro il 2050, 121 miliardi di dollari all’anno. Chi deve mettere questi fondi e su pressione di chi?

Il mercato dell’aviazione si è pienamente ripreso dopo il Covid, i consumatori non hanno tutta questa spinta a chiedere innovazione ecologica e comprano voli come se niente fosse, l’unica transizione sono i soliti schemi – al confine col greenwashing – di carbon offsetting, cioè piantare alberi come atto di contrizione per le emissioni prodotte col volo. Le compagnie aeree vivono di margini sempre più ristretti. I produttori, in assenza di regole stringenti, difficilmente avranno la spinta che serve a riconvertire l’industria. E quindi? Chi ce li mette questi 121 miliardi di dollari all’anno?

Una proposta arriva dal centro studi International council on clean transportation: devono pagare i frequent flyer. Il 2 per cento dei clienti delle compagnie aeree oggi prende quasi il 40 per cento dei voli. Il 20 per cento più ricco della popolazione mondiale riempie l’80 per cento degli aerei. E così via: niente sintetizza l’ingiustizia climatica quanto le possibilità di accesso al volo e le condizioni di quel volo. E quindi la proposta contiene una parola estremamente impopolare, ma leviamoci il pensiero: una tassa. Una tassa per i passeggeri, che scatta al secondo volo preso in un anno, e che diventa man mano più alta a seconda di quanti voli si prendono durante l’anno. Il primo volo costerebbe 0, il secondo volo 9 dollari, e così via, il ventesimo (e siamo già in quota frequent flyer) costerebbe 177 dollari di tassa aggiuntiva. Alla fine dell’anno il conteggio si azzererebbe di nuovo.

L’idea avrebbe due effetti. Il primo sarebbe raccogliere le risorse per la ricerca tecnologica. Il secondo sarebbe scoraggiare i voli inutili, quelli che possono essere facilmente sostituiti con un treno. È come se questo meccanismo assegnasse, implicitamente, una quota fissa di voli che una persona può prendere in un anno: sarebbe un modo per educare le persone (o le aziende, nel caso dei viaggi business) a scegliere se hanno davvero bisogno di quell’aereo. Siamo comunque nel campo della speculazione: una misura del genere avrebbe bisogno di un accordo globale (sappiamo quanto è difficile) e di un sistema integrato di verifica sui documenti dei viaggiatori (che al momento non esiste). È però la spia di qualcosa: per non rinunciare a volare, dobbiamo imparare a volare di meno, e meglio.

Cronache dalla sesta estinzione

Nello scorso numero di Areale avevamo parlato di numeri promettenti sulla ripresa della fauna in Europa, presi da un nuovo studio sul rewilding del continente. Questa settimana è uscito invece il Living planet Report 2022 del Wwf, il rapporto biennale che la più grande organizzazione di conservazione al mondo fa sullo stato della natura. Un monumento di dati su 30mila specie viventi, una delle fonti di informazione più importanti al mondo sulla salute globale della fauna.

Il Living planet Report ci racconta una storia che sembra opposta a quella sul ritorno del selvatico in Europa della settimana scorsa, invece è solo la stessa storia con un’inquadratura più ampia, un’immagine che ci mostra quanto sia coloniale il nostro rapporto con le risorse naturali. Se in Europa stiamo faticosamente riuscendo a preservare il nostro patrimonio naturale, nei paesi tropicali (quindi alle latitudini più ricche di biodiversità) quella ricchezza sta crollando. Le popolazioni di specie di vertebrati sono diminuite in media del 69 per cento dal 1970.

Attenzione, non vuol dire che abbiamo il 69 per cento degli animali in meno. Vuol dire che il declino di popolazione interno a ogni specie (e le dimensioni di queste popolazioni variano parecchio tra di loro) è stato mediamente del 69 per cento. È comunque tanto, troppo, ma non la stessa cosa di dire che ci sono il 69 per cento degli animali in meno rispetto al 1970.

Ci sono due cose che mi spaventano da questo rapporto. Sono due angoli che conosciamo, non sono novità assolute, ma è importante metterli a fuoco.

Il primo è la tragedia che sta avvenendo nella biodiversità d’acqua dolce in tutto il mondo (in questo caso è una situazione che si riflette anche in Italia, per altro), dove le popolazioni delle specie sono crollate globalmente in media dell’83 per cento in cinquant’anni. Nessun gruppo di specie sta declinando così rapidamente, i fiumi e i laghi si stanno svuotando di vita a un ritmo spaventoso, soprattutto per la perdita di spazio vitale e le barriere alle rotte migratorie (solo il 37 per cento dei fiumi lunghi più di 1000 chilometri è libero da interruzioni), ma hanno un effetto anche le siccità e l’invasione di specie aliene (altro problema enorme dell’Italia).

Le acque dolci sono solo l’1 per cento della superficie terrestre, ma ci vive un terzo dei vertebrati. Un essere umano su due vive a meno di tre chilometri da un corso d’acqua. Da questi equilibri naturali dipendono vita, sicurezza, prosperità, salute. La vita nei fiumi e nei laghi sta collassando, è il perfetto punto di rottura dove si incontrano crisi climatica e crisi della biodiversità.

L’altro dato non-nuovo-ma-messo-a-fuoco è quello sul collasso della biodiversità lì dove ce n’è di più. Tra il 1970 e il 2018 le popolazioni di fauna selvatica monitorate in America latina e nella regione dei Caraibi sono diminuite in media del 94 per cento. Sono numeri spaventosi, con un chiaro significato politico, soprattutto dal momento che escono a due mesi dalla Cop15 di Montreal, la conferenza delle parti Onu sulla biodiversità, che ha l’obiettivo di convincere tutti i paesi della Terra a firmare insieme un trattato in stile accordo di Parigi sulla protezione della natura.

Ci sono voluti quattro anni di negoziati per arrivare a questo endgame, dal 7 al 19 dicembre in Canada. La preparazione all’evento non sta andando benissimo. Il luogo fisico dove si svolge la conferenza è Montreal, ma il vero paese organizzatore è la Cina, che ha dovuto rinunciare a ospitare i negoziati in presenza a Kunming per le rigidissime regole Covid ma non ha rinunciato al controllo politico dell’evento, che offre a Xi Jinping la possibilità di mostrare la «via cinese all’ecologia» che sta diventando uno dei pilastri della sua ideologia.

Le relazioni tra Cina e Canada sono tese per la vicenda Huawei, Xi stesso non si presenterà fisicamente a Montreal e al momento non sono stati invitati capi di stato e di governo. Questo crea un vuoto di legittimità politica alla strada verso l’accordo, che invece per funzionare e avere l’ambizione richiesta necessita di supporto e visibilità ai massimi livelli. Lo scenario non è positivo, i numeri del Wwf ci dicono che di spazio per sbagliare non ce n’è più.

Per questa settimana è tutto. Come ti raccontavo su Areale della settimana scorsa, il 14 ottobre è uscito Primavera ambientale, un libro che ho scritto per visualizzare insieme le prospettive dell’ecologia politica e dei movimenti per il clima. Il 21 ottobre lo presento insieme a Fabio Deotto alla Libreria Alaska di Milano. Può essere un’occasione per incontrarci! Altrimenti, come sempre, puoi scrivermi a ferdinando.cotugno@gmail.com. E per parlare con Domani: lettori@editorialedomani.it.

A presto! 

Ferdinando Cotugno

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