È facile e ovvio chiedersi che cosa possiamo aspettarci di buono dalla Cop28 di Dubai. È naturale rilevare le contraddizioni. Una conferenza che dovrebbe portare alla decarbonizzazione ospitata da un paese che basa la sua economia sui combustibili fossili (e che ha violato i suoi impegni sui limiti al gas bruciato e disperso nell’atmosfera, il cosiddetto gas flaring, come riportato dal Guardian) e ha usato i colloqui bilaterali per trattare affari legati ai combustibili, come detto su questo giornale.

Una conferenza gestita da Sultan al-Jaber, Ceo dell’azienda petrolifera Adnoc. Un paese la cui legislazione limita fortemente il diritto di manifestazione, di dissenso e di libertà di pensiero, cosa che impedirà ai movimenti ecologisti di prendere parte alla discussione. Ma forse è ora di andare al di là delle Cop.

Fino adesso, le politiche sul clima sono state questione di diplomazia e contrattazione fra stati, materia di trattati, appunto. La cornice giuridica della Convenzione quadro sui cambiamenti climatici del 1992 affida le politiche climatiche agli accordi delle parti, cioè alla discussione fra stati: quindi all’equilibrio geopolitico, alla diplomazia e alla contrattazione. Era una impostazione inevitabile: il cambiamento climatico è il frutto dei comportamenti prolungati di miliardi di esseri umani e per la mitigazione e l’adattamento servono politiche globali, che solo stati e unioni di stati possono attuare.

Però, dopo trent’anni dalla Convenzione, il bilancio è pieno di ombre, per dirla eufemisticamente: tutti i dati diffusi in queste settimane mostrano che gli obiettivi sono ancora lontani ed è difficile essere ottimisti sul futuro.

I deficit

Quest’insuccesso deriva anche da difetti della cornice politica. Ci sono in particolare due deficit. Il primo è un deficit di democrazia. Anche gli stati più democratici non rappresentano pienamente le loro società civili e le istanze ambientaliste che vengono dal basso.

Figuriamoci gli stati non democratici o gli stati democratici in cui maggiore è l’influenza politica di chi difende l’economia basata su combustibili fossili. Le Cop non sono organi pienamente democratici. In esse gli interessi maggioritari, quelli di chi verrà colpito pesantemente dagli effetti pericolosi del cambiamento climatico, non sono rappresentati come dovrebbero, col peso che dovrebbero avere.

Nelle Cop non si rappresentano le generazioni future, né si rappresentano gli interessi più diffusi e più a rischio. Nelle Cop certi interessi e certi gruppi contano di più, inevitabilmente. Come sempre accade nella diplomazia degli stati, d’altra parte. L’attivismo climatico non ha, né può avere cittadinanza piena nelle Cop.

Questo frena inevitabilmente i progressi verso politiche climatiche più ambiziose. È ora di pensare a un organismo diverso, un’Assemblea generale dei movimenti per la giustizia climatica, concepito come corpo politico di rappresentanza democratica degli interessi e dei diritti delle vittime dei cambiamenti climatici pericolosi.

Il secondo deficit è di diritto. Le Cop non producono diritto vincolante. E questo rende la vita facile a chi vuole frenare i progressi delle politiche di mitigazione e adattamento. La via di una costituzionalizzazione e giuridificazione delle politiche ambientali è quella che ha portato alla riforma dell’art. 9 della nostra Costituzione e ad articoli analoghi in altre Costituzioni, nonché quella proposta da studiosi come Luigi Ferrajoli (Per una Costituzione della Terra, Feltrinelli, 2022).

Il diritto internazionale non è vincolante come quello interno e si basa sull’adesione volontaria degli stati. Ma si fa via via sempre più strada l’idea di norme di diritto internazionale ritenute vincolanti per tutti gli stati – come nel caso di quelle che regolano la condotta di guerra o i diritti dei richiedenti asilo (nonostante moltissimi tentativi di eluderle). L’inazione di fronte ai cambiamenti climatici è causa di sofferenze presenti e future di vittime ed è intenzionale.

Si tratta di crimini internazionali di sistema, come li chiama Ferrajoli. È ora di attivarsi per una Corte internazionale di giustizia climatica, che tuteli e rappresenti i diritti delle vittime presenti e future dei cambiamenti climatici, anche agendo contro gli stati. Dopo trent’anni di diplomazia esitante e cauta, le politiche climatiche debbono entrare nella sfera della democrazia e del diritto.

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