Questa settimana ho letto La tragedia del Vajont - Ecologia politica di un disastro (Einaudi), dello storico italiano Marco Armiero. Poi, ieri sera, ho rivisto il monologo di Marco Paolini, l’orazione civile che ha cambiato la storia dell'ecologia in Italia. Il Vajont è nell'aria, erano sessant'anni il 9 ottobre scorso, è una storia che non ha smesso di esondare, di essere più di quello che contiene. Riletta nel 2023, e nella nuova settimana che ci ha riportato nel ciclo di tempesta, pioggia, alluvione, «come è potuto succedere?», dati Ispra, «è crisi climatica e consumo di suolo?», eccetera, il Vajont sembra il modellino in scala della crisi climatica. Gli scricchiolii che vanno avanti per anni.

La costruzione della diga come monumento all'ingegno e all'ambizione umana. La paura che diventa fatalismo oppure viene derisa oppure entrambe le cose. Le responsabilità penali (poche, esigue, difficilissime da provare) per le duemila vittime, diluite in una questione molto più grande: le responsabilità di un intero modello di sviluppo, che voleva piegare la realtà fisica del mondo ai propri disegni e bisogni.

Se c'è una morale, nel Vajont, è che invece la realtà fisica del mondo vince sempre. Non c'è proprio gara. Non chiamarla nemmeno natura. Chiamala proprio realtà. Chi denunciava, prima del disastro, veniva accusata di fomentare le paure della gente. Chi denunciava le stesse responsabilità e connivenze, dopo il disastro, veniva accusata di strumentalizzare il dolore.

Era la giornalista comunista Tina Merlin, fu addirittura processata (e assolta) per i suoi articoli sul Vajont. Processata per aver disturbato l'ordine pubblico, scrivendo la verità. Marco Armiero le dedica il suo libro (è bello, leggilo), «A Tina Merlin, che ci ha insegnato a disturbare l'ordine pubblico». Disturbiamolo, prima che sia troppo tardi. Questo è il numero 145 di Areale, buon sabato, cominciamo.

I cattivi dietro la lavagna

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Le settimane prima dell'inizio di ogni Cop sul clima sono quelle dei numeri. Le conferenze sul clima sono complesse sfide diplomatiche, che sono molto influenzate dalle percezioni, quelle dentro il palazzo e quelle negli occhi del mondo che osserva cosa succede nel palazzo. Sono le uniche due settimane dell'anno in cui il clima è davvero in cima all'agenda, quella dei leader e quella dell'opinione pubblica.

È per questo che il mese di avvicinamento è una specie di fiume incontrollato di report e studi, pubblicati per informare su cosa c'è in ballo alla Cop ma anche per costruire la propria agenda, per strutturare una narrazione politica. Insomma, Cop28 è già cominciata. La Iea, agenzia internazionale dell'energia, sta portando avanti la tesi dell'ottimismo della volontà: si può fare. L'Onu, al contrario, sventola la bandiera dell'urgenza irrevocabile: si deve fare. È per questo che i suoi studi più recenti hanno sempre «gap» nel titolo. Gap come distanza tra quello che viene fatto e quello che andrebbe fatto.

La settimana scorsa si era parlato dell'Adaptation Gap: quanto dovremmo investire in adattamento, quanto stiamo effettivamente investendo. Questa settimana è stato il momento del Production Gap: la distanza tra la produzione di energia reale e la produzione di energia di cui abbiamo bisogno per i nostri obiettivi climatici. Il Production Gap Report 2023 dell'Unep è uno dei più politici mai pubblicati dall'agenzia ambientale dell'Onu, perché non parla solo di numeri e scenari, parla di paesi, punta il dito, fa classifiche dei cattivi, gli stessi che tra poco parteciperanno (o addirittura ospiteranno) Cop28. «I governi devono smettere di dire una cosa e farne un'altra, soprattutto se riguarda la produzione e il consumo di combustibili fossili», si legge nella prefazione dello studio. «Stanno mettendo il futuro di tutta l'umanità a rischio, non solo quello della transizione».

Il Production Gap analizza le politiche energetiche di venti paesi produttori di fonti fossili: ci sono i petrostati del Golfo, Emirati Arabi compresi (padroni di casa della Cop di Dubai), ci sono gli Stati Uniti, la Cina, l'India. I rappresentanti dell'84 per cento delle emissioni di CO2.

Tutti dietro la lavagna, nonostante 17 su 20 abbiano già un obiettivo di azzeramento delle emissioni. Obiettivo farlocco, dice l'Onu, perché le emissioni non faranno che salire. Secondo lo studio, i piani combinati di questi venti paesi comportano il 460 per cento della produzione di carbone in più, l'83 per cento di quella di gas in più e il 29 per cento di quella di petrolio in più rispetto a quanto sarebbe compatibile con un aumento di temperature di +1.5°C rispetto all'era pre-industriale, cioè quello che in teoria sarebbe l'obiettivo di tutti. Secondo Unep (che ha analizzato questi dati insieme a Climate Analytics, E3G, Stockholm Environment Institute e IISD, cioè il meglio che ci sia in campo climatico) anche l'obiettivo di stare entro +2°C di aumento di temperatura è a rischio con questa grande abbuffata: i venti paesi produrranno il 69 per cento di fonti fossili in più. Non benissimo.

Per ogni fonte di energia fossile, Unep stila una classifica dei cattivi, basata su quanto aumenteranno la produzione nei prossimi sette anni. Per quanto riguarda il carbone, nessuno è messo peggio dell'India, seguita, a grande distanza, da altri due paesi carboniferi come Russia e Indonesia. Significativo che ci sia quest'ultimo paese, perché è protagonista di uno degli accordi climatici più innovativi, un modello secondo il quale una cordata di paesi ricchi sostengono la transizione di un singolo paese emergente (in questo caso l'Indonesia) con un misto di fondi pubblici e privati. In questo caso, tantissimi fondi: 20 miliardi di dollari solo per l'Indonesia.

L'accordo per altro sta avendo una serie di problemi politici e di implementazione, e intanto il paese asiatico continuerà a bruciare carbone. Sul fronte del petrolio, la massima espansione da qui al 2030 sarà quella dell'Arabia Saudita (nessuna sorpresa, qui, Saudi Aramco ha messo abbastanza in chiaro che vuole estrarre fino all'ultima goccia), seguita da Stati Uniti e Brasile, e qui ci sarebbe già più da obiettare, visto che sono due paesi guidati da due campioni dell'ambizione (sulla carta) come Biden e Lula, che ha compensando diffondendo numeri ottimi sulla deforestazione, finalmente in calo.

Terza fonte fossile: il gas. Il paese che più spingerà sulla produzione è il Qatar (lo abbiamo visto anche dall'accordo con Eni fino al 2053), seguito da Russia e Nigeria. Mentre a Cop28 si discuterà di phase-out (uscita) o phase-down (riduzione), questi venti paesi stanno correndo a bruciare tutte le loro riserve nell'atmosfera.

Loss and damage: una specie di accordo

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A Sharm el-Sheikh, Cop27, ci eravamo lasciati con un accordo storico per la giustizia climatica: la creazione di un fondo per compensare i danni e le perdite dei paesi poveri colpiti dalla crisi climatica. Quell'accordo però era un libro ancora tutto da scrivere, come il finale di una serie Tv che si chiude con un colpo di scena, rimandando tutto alla prossima stagione.

Tanto del lavoro su loss and damage si farà a Cop28, ma intanto la commissione di transizione che si occupa dei dettagli pratici del fondo ha raggiunto una sorta di pre-accordo, la settimana scorsa. «Manca il mio voto, che potrebbe confermare o ribaltare completamente la situazione», direbbe Alessandro Borghese in Quattro ristoranti. Insomma, l'accordo vero si farà a Dubai, ma questa bozza è la base su cui vedremo il dramma, i conflitti, le liti e i tentativi di trovare un punto comune su una serie di questioni fondamentali. Temi sul piatto.
Chi decide?
Con quali soldi?
Chi paga?
Chi incassa?
Questioni gigantesche.

Le riunioni della commissione di transizione si sono tenute ad Abu Dhabi e hanno prodotto uno specifico risultato, la risposta alla prima domanda: chi decide? È una risposta che ha fatto arrabbiare molti, soprattutto paesi vulnerabili, ambientalisti e società civile. A quanto pare (ma ricorda la regola Borghese, tutto può cambiare a Dubai) si vuole affidare il fondo loss and damage alla Banca Mondiale, la stessa che fino a pochi mesi fa era diretta da un negazionista, un'istituzione con sede a Washington, sulla quale gli Usa hanno un'enorme influenza e di cui scelgono il presidente, che è sempre stato finora un cittadino statunitense. Non una premessa di terzietà e indipendenza, insomma, soprattutto in merito alle altre tre questioni, che riguardano direttamente gli Stati Uniti.

Dopo aver ottenuto che il fondo fosse inglobato dalla World Bank, i delegati hanno sostanzialmente rinviato a Dubai le vere decisioni sul pool dei donatori. Saranno i paesi sviluppati intesi secondo la classificazione del 1992 oppure ci saranno i nuovi ricchi del mondo (che spesso sono anche dei petroricchi) come Arabia Saudita, Qatar o Singapore? Come è possibile che Italia o Spagna debbano contribuire a un fondo sui danni da clima, ma Arabia Saudita e Qatar no? Altro tema sul quale c'è uno stallo: chi riceverà questi soldi? Tutti i paesi in via di sviluppo (come vorrebbe la Cina?) o quelli proprio poverissimi e/o in procinto di finire sott'acqua (come vorrebbero gli Stati Uniti?). Per ora è tutto congelato fino a Cop28, ma la novità è che ora è tutto congelato dentro un contenitore a stelle e strisce che si chiama World Bank.

Animaletti: un'echidna, delle tartarughe, un gufo e vari pinguini

ANSA

È quasi metà novembre, le settimane sono quelle che sono, in termini di peso emotivo, quindi chiudiamo con po' di storie di animaletti. La mia preferita l'ho letta per la prima volta grazie al zoologo Fabio Chinellato su X. Indonesia, l'echidna dal becco lungo, chiamata scientificamente Zaglossus attenboroughi in onore del documentarista David Attenborough, sembrava estinta, persa, salutata, un fantasma, un arto fantasma, pezzo di mondo andato. Peccato, perché erano in giro da 200 milioni di anni, animali che avevano incrociato i dinosauri. E invece no, ce ne sono ancora, le ha trovate una foto-trappola dell'Università di Oxford. Ed è già una storia, è praticamente come aver visto un fantasma biologico. Ma la parte più bella che è che l'hanno trovata quando ormai avevano perso ogni speranza. Il fotogramma era nell'ultima scheda, dell'ultima fotocamera, nell'ultimo giorno della spedizione. Questa echidna voleva dirci qualcosa: , si può fare qualcosa fino all'ultimo giorno in cui si può fare qualcosa. Sentiamoci in partita, consideriamoci dentro il mondo e le sue possibilità. Grazie, echidna.

Le tartarughe giganti delle Galapagos sono ingegneri del paesaggio. Le cose sono andate così: prima della colonizzazione, ce ne erano 10mila. Poi divennero 14, soprattutto perché il loro ecosistema era stato preda di specie invasive portate dai colonizzatori, come capre e ratti, che lo avevano reso insopportabilmente brullo, invivibile, per loro. Il progetto di ripopolamento è stato uno dei più ambiziosi mai tentati e parte decenni fa. Le quattordici tartarughe superstiti sono state prese, portate in laboratorio, fatte riprodurre, e poi la nuova generazione (2000 esemplari) è tornata in natura. Ora ci sono 3000 tartarughe giganti sull'isola di Española ma soprattutto il paesaggio non è più brullo, è tornato allo stato originario, spinto dai comportamenti stessi delle tartarughe, molto diversi da quelli di capre e ratti. Addirittura questa opera di ingegneria del paesaggio sta facendo tornare in salute anche la popolazione di un albatro locale che vive solo qui, e che era molto in difficoltà. Effetto speranza a catena.

Altre due piccole cose: l'ecologo Carl Safina racconta qui la sua amicizia con un piccolo gufo zoppo che ha trovato nel suo giardino. E a Eden, in Australia, qui puoi leggere di come un lavoro lunghissimo ha fatto tornare la prima colonia di pinguini in trent'anni.

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A presto, buon sabato!

Ferdinando Cotugno

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