Sulle testate più importanti del mondo scientifico, Nature, e di quello finanziario, Financial Times, è arrivato un dibattito tra ricercatori che sta diventando il più importante dell’anno: il problema climatico è stabile, oppure sta peggiorando davanti ai nostri occhi, in modi che nessuno aveva previsto?

Che conclusioni possiamo trarre dagli otto mesi consecutivi di record polverizzati e da un anno consecutivo di temperature oceaniche sopra la media? A verbalizzare i dubbi e provare a portarli nel dibattito pubblico è stato Gavin Schmidt, direttore del centro di modelli climatici della Nasa, in un editoriale su Nature sobrio nel tono ma preoccupante nei contenuti. «Nessun anno aveva mai confuso tanto gli scienziati sulle loro capacità di previsione del clima quanto il 2023», ha scritto Schmidt.

Le anomalie sono partite a giugno dell’anno scorso, sono proseguite anche per gennaio e febbraio del 2024: da allora ogni mese è stato eccezionalmente caldo, con un margine sempre superiore di almeno 0.2°C sopra i precedenti record: per un sistema grande come la Terra è una anomalia enorme.

Aumentano le temperature

Schmidt ha elencato le possibili cause proposte dalla comunità scientifica - il ciclo di oscillazione termica chiamato El Niño sull’Oceano Pacifico, l’eruzione vulcanica di Tonga, l’incremento dell’attività solare - ma nessuna di queste e neppure la loro combinazione è in grado di spiegare un aumento di temperatura con un margine così grande su scala globale.

«Questa anomalia è venuta fuori dal nulla e ha rivelato un gap di conoscenza che non avevamo mai sperimentato da quando i dati satellitari ci hanno permesso quarant’anni fa di conoscere il sistema climatico terrestre in tempo reale».

Secondo Schmidt dobbiamo attendere agosto, quando finirà l’effetto di El Niño, per trarre delle conclusioni: «Se la situazione non si sarà stabilizzata, saremo davvero in un territorio completamente nuovo. Abbiamo bisogno di risposte sul perché il 2023 si è rivelato essere l’anno più caldo degli ultimi 100mila anni. E ne abbiamo bisogno velocemente».

Combustibili fossili

L’eco del dibattito è arrivato sul Financial Times, che non è esattamente una gazzetta ambientalista, ma ha preso una posizione insolitamente netta. L’editoriale uscito ieri non firmato (e quindi espressione della visione del giornale) ha unito i puntini dell’anomalia climatica con i nuovi piani di espansione dei combustibili fossili, la causa principale dell’instabilità climatica, diffusi dalle aziende oil and gas nelle ultime settimane.

Il Financial Times ha sottolineato la dissociazione del tempismo tra ciò che agita la scienza e come si stanno muovendo le aziende più responsabili di questo problema. La settimana scorsa a una convention energetica a Houston, l’amministratore delegato di Saudi Aramco Amin Nasser aveva bollato come «fantasie» qualunque prospettiva di uscita dai combustibili fossili.

Tutto il settore sta andando in quella direzione: Shell ha aggiornato il suo piano di transizione, ha indebolito gli obiettivi di riduzione delle emissioni al 2030, ha eliminato quelli al 2035, ha messo in cantiere una crescita di gas liquefatto del 30 per cento.

Business as usual

Secondo l’ultimo rapporto di Carbon Tracker nessuna tra le prime venticinque aziende oil&gas al mondo ha un piano di transizione allineato agli obiettivi dell’accordo di Parigi. L’articolo elenca le contraddizioni e le bugie del settore e si conclude richiamando il primo allarme ricevuto dalla comunità mondiale sui rischi delle emissioni di gas serra: era il 1988 e a farlo era stato un precedessore di Schmidt nello stesso ruolo alla Nasa, James Hansen.

«Il mondo non ha del tutto ignorato il suo messaggio nei successivi 36 anni, ma non lo ha nemmeno preso sufficientemente sul serio. I capi del settore petrolifero preferiscono predicare un messaggio business as usual, ma né loro né tutti noi possiamo permetterci di sottovalutare quello che la scienza ci sta dicendo su una minaccia climatica che si sta spostando in un territorio completamente nuovo».

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