Il cobalto è come un veleno in circolo nella transizione energetica, oltre che nella maggior parte dei nostri dispositivi elettronici. Questo metallo è oggi indispensabile per le batterie, il sistema nervoso dell’elettrificazione di quasi tutto alla quale assisteremo nei prossimi tre decenni, dalle auto ai sistemi per accumulare le energie rinnovabili.

Le sue proprietà chimico-fisiche conferiscono stabilità alle batterie, permettono migliaia di cicli di ricarica, evitano corrosione e incendi. Il problema è che più del 60 per cento del cobalto viene estratto in Repubblica Democratica del Congo, paese dove poi un quinto del totale è prodotto in piccole miniere artigianali che operano al di fuori di ogni regola, con condizioni documentate di lavoro minorile, danni alla salute e aperta violazione dei diritti umani.

Nel 2019 Tesla, Apple, Alphabet, Dell e altre aziende sono state citate in giudizio negli Stati Uniti dalla ong anti-schiavitù International Rights Advocates, per conto di genitori di minatori bambini e per le drammatiche condizioni di lavoro lungo la catena di produzione delle batterie. La tesi che queste aziende fossero responsabili di quello che accadeva dall’altro capo della filiera sono state respinte, per l’impossibilità di tracciare il metallo e accertare le responsabilità, uno stratagemma legale che però misura anche quanto sia opaco il viaggio del cobalto dalla miniera alla batteria.

Il metallo più costoso

Quando si parla di queste storture con i sostenitori della transizione energetica si incontra spesso un senso di frustrazione, come se ci fosse un doppio standard e la tossicità ecologica e sociale del cobalto fosse più notata e discussa di quella del carbone, del petrolio, o dell’estrazione di oro e diamanti.

Il problema è che è vero, esiste un doppio standard ed è giusto così: il veleno del cobalto si nota di più perché la transizione per l’azzeramento delle emissioni vive anche di reputazione, della necessità etica che venga portata a termine.

Il fatto che sia fondata sul cobalto e che il cobalto venga estratto in queste condizioni inquina queste basi etiche. In Congo le grandi miniere ufficiali hanno prodotto un colonialismo di ritorno: la maggior parte appartengono ad aziende cinesi, che estraggono il cobalto, lo lavorano e lo inviano ai produttori di batterie, sempre cinesi, che poi vendono il prodotto finito a chi fa smartphone o auto. E poi c’è la corsa all’oro grigio, la ricerca di filoni ovunque si possano trovare, portata avanti dai cosiddetti creuseurs, minatori fai-da-te che scavano buchi dappertutto.

È un settore ancora più difficile da regolare, i lavoratori a volte sono bambini, vengono pagati tre dollari al giorno o meno, in condizioni di quasi-schiavitù. Un materiale così problematico dal punto di vista della giustizia sociale mina la credibilità stessa della transizione, ma la buona notizia è che la disintossicazione dal cobalto sporco è in corso, mossa non solo dall’etica e dall’immagine, ma anche dalla necessità di svincolarsi da un mercato volatile e imprevedibile.

Il cobalto è il più costoso dei metalli della transizione, più caro degli altri quattro materiali chiave messi insieme (litio, nichel, alluminio e manganese). C’è un evidente interesse industriale a ridurlo e poi liberarsene.

L’aumento della produzione

La metà del cobalto estratto nel mondo finisce in un catodo, il polo positivo che scambia energia dentro una batteria elettrica. Dentro uno smartphone si trovano 10 grammi di cobalto, in un’auto elettrica possono essercene fino a 9 chili.

I suoi prezzi sono delle montagne russe, a fine 2021 era cresciuto del 119 per cento rispetto a inizio anno, oggi è quotato a circa 70mila dollari alla tonnellata, ma nel 2018 era arrivato a superare i 95mila dollari alla tonnellata.

I minatori tedeschi del Settecento gli hanno dato il nome, che viene da Kobold, un folletto del folklore, uno spiritello imprevedibile e dispettoso. Chiamavano così questo metallo perché loro cercavano l’argento e il cobalto era un inutile intralcio, faceva perdere tempo, come un troll.

«La sua criticità», spiega Nicola Armaroli, chimico e dirigente di ricerca del Cnr, «è che il cobalto è un metallo cosiddetto autostoppista, cioè principalmente il prodotto secondario di altre miniere, soprattutto nichel e rame, e questo crea una complessità intrinseca nella catena produttiva». Il cobalto insomma è qualcosa che troviamo cercando altro.

Le riserve più grandi sono in Congo, seguito da un altro grande paese minerario come l’Australia, e poi Cuba, Filippine, Russia, Canada. Con gli attuali tassi di crescita nel mercato delle auto elettriche e a tecnologie invariate, per tenere il passo la sua produzione dovrà aumentare tra il 70 e il 100 per cento nel corso di questo decennio.

Secondo la Banca Mondiale arriverà addirittura al più 545 per cento entro il 2050, l’anno delle zero emissioni. Secondo una ricerca dell’Istituto francese per le relazioni internazionali e strategiche (Iris), in uno scenario di azzeramento delle emissioni dovremo tirare fuori dal suolo l’83,7 per cento di tutto il cobalto del quale siamo a conoscenza, con costi ambientali e umani impossibili da calcolare.

Tra le alternative geopolitiche per questa rincorsa c’è anche il cosiddetto deep sea mining, l’esplorazione dei fondali oceanici (soprattutto del Pacifico orientale) alla ricerca di miniere di profondità e nuovi spazi per estrarre risorse, un’altra prospettiva con rischi ecologici preoccupanti.

Senza cobalto

Per questo motivo la progettazione di una batteria libera da cobalto è una delle frontiere decisive per la credibilità della transizione energetica. «La ricerca ci sta provando con un processo di tentativi ed errori, come si fa con una ricetta in cucina, per modificare i dosaggi usando chimiche alternative, come nichel e manganese, abbassando quello del cobalto, senza perdere le caratteristiche. Come regola generale, più grande è la batteria, e quindi il prodotto finale, e più c’è margine per ridurre cobalto», spiega Armaroli. «Quindi per le grandi batterie delle rinnovabili c’è più margine che per le auto, e per le auto c’è più margine che per gli smartphone».

L’Università del Texas ha pubblicato lo studio su un prototipo completamente libero dal cobalto, sostituito quasi tutto dal suo vicino di tavola periodica, il nichel. Non è la prima in assoluto, ci sono già batterie senza cobalto in commercio, ma è la prima a non perdere nessuna delle caratteristiche di performance che rendono il cobalto così prezioso per il catodo, ad avere quindi la stessa densità, la stessa stabilità e lo stesso numero di chilometri percorsi, se parliamo di un’auto.

Il produttore più interessato a svincolarsi dalla filiera del cobalto, nonché quello con più possibilità di riuscirci, è Tesla. Nel Battery day del 2020 Elon Musk aveva annunciato che avrebbe usato solo batterie senza cobalto. Musk aveva anche spiegato che le nuove batterie cobalto free renderanno le auto elettriche più economiche per il consumatore finale, visti i prezzi di mercato del metallo e il fatto che le batterie stesse sono la componente più costosa dell’auto (fino al 40 per cento del prezzo finale).

Il riciclo

Non c’è dubbio che a un certo punto l’innovazione ci porterà ad avere batterie senza cobalto con le stesse performance di quelle con il cobalto. Il punto è che nel frattempo ci saranno decenni di inerzia industriale da invertire. È per questo che è altrettanto importante la seconda strategia per ripulire la transizione energetica dal cobalto: il riciclo di quello in circolazione.

Gli incentivi a farlo sono sempre gli stessi: l’etica e il prezzo altissimo della risorsa. Riciclare cobalto però non è una passeggiata. La prima difficoltà è la giungla di legislazioni internazionali. L’Europa si è mossa in questo senso con la Battery regulation, che mette criteri e parametri rigidi su quanto riuso ci dovrà essere dei metalli, ma sarà utile solo quando avremo una vera industria di batterie nell’Unione europea, quindi, se va bene, nel 2030.

La seconda è l’assenza di metodi internazionali per la produzione di batterie, che rende difficile avere gli stessi standard per il riuso dei materiali. «Per capirci, è diverso dai pannelli fotovoltaici, che sono praticamente tutti uguali, come delle fotocopie», spiega Armaroli. «Ogni produttore si fa le sue batterie, cilindriche, a pacchetto, piatte come fogli».

Ogni batteria quindi ha la sua metodologia per riciclare il cobalto e gli altri metalli al suo interno, per alcune è più facile, per altre è più difficile. Ci vorrà quindi tempo per armonizzare e portare l’economia circolare del cobalto a livelli di sostenibilità globale.

La conclusione è che non ci sarà una soluzione unica, in questo decennio che si preannuncia turbolento per la competizione per decarbonizzare il decarbonizzabile. Il cobalto andrà ridotto il più possibile nelle batterie che ne fanno uso, andranno incentivate quelle ne sono libere, andrà potenziata e coordinata l’economia circolare.

Sono urgenti i tempi: nel 2021 sono state vendute 3,3 milioni di auto elettriche. Nel 2040 saranno oltre 60 milioni, se tutto va come i piani. La quantità di cobalto vergine che ci sarà dentro quelle auto sarà una misura vera del progresso. Non ci sarà altrimenti nessun futuro sostenibile, se quel futuro sarà basato su un metallo così insostenibile. 

© Riproduzione riservata