I negoziati di giugno dell’Onu sul clima di Bonn, in Germania, sono solitamente un passaggio intermedio, tecnico, che fa da ponte tra una Cop e l’altra: si preparano le agende, si discutono regole, si mettono a punto i budget e le procedure, molti incontri ma poche notizie. Le Cop sono la scena madre, il vertice di Bonn è una sorta di back office per addetti ai lavori, un’officina diplomatica dove si preparano i dettagli per l’evento più importante dell’anno.

Ormai però non c’è più niente di esclusivamente «procedurale» nell’azione multilaterale per il clima, ogni aspetto tecnico è diventato anche politico, nessun contesto è neutro. E quindi il vertice nella città tedesca, che è la sede dell’Unfccc, l’agenzia dell’Onu per la lotta ai cambiamenti climatici, è diventato un passaggio fondamentale per il futuro stesso delle Cop, due settimane utili per capire se questo strumento ha ancora senso e la capacità di portare risultati.

Le tensioni

Il contesto è fosco. Da un lato ci sono i segnali che arrivano dalla scienza: un mese fa l’Organizzazione meteorologica mondiale ha previsto che l’aumento di temperature di +1.5°C sarà superato con ogni probabilità per la prima volta già entro i prossimi cinque anni. Ogni anno che passa si aggiunge un numero accanto a una Cop (Cop1... Cop26, Cop27), il margine di azione diminuisce e il senso di urgenza aumenta. Lo ha ribadito anche il segretario Unfccc Simon Stiell al suo discorso inaugurale del vertice di Bonn. «Siamo a un punto critico. Sappiamo che un rapido cambiamento spesso segue un lungo periodo di gestazione. E il periodo di gestazione per l’azione sul clima è stato lungo abbastanza. Dobbiamo darci una mossa».

Dall’altro lato, la tensione che si respira a Bonn deriva dal fatto che siamo a sei mesi dall’inaugurazione della ventottesima e, per certi versi, della più problematica delle conferenze Onu sul clima, quella che si tiene in un petrostato, gli Emirati Arabi, con l’amministratore delegato di una azienda oil and gas come presidente e guida politica del negoziato. I negoziati intermedi si tengono a Bonn fino al 15 giugno, ma l’attenzione è tutta per quello che si riesce a captare da Dubai. Non casualmente Sultan Al Jaber, presidente di Cop28 e Ceo di Adnoc, ha trascorso un solo giorno in Germania, un modo per ridurre la superficie d’impatto e i rischi politici.

Dibattito inquinato

Dopo anni di appuntamenti andati a vario titolo a vuoto, in cui più che di emissioni si è parlato di finanza, c’è un solo modo per salvare le Cop da sé stesse ed è che da Dubai si esca con un impegno globale coordinato per il phase-out di tutti i combustibili fossili, con una roadmap e un orizzonte condivisi. Il problema è che questo risultato va raggiunto giocando «fuori casa», per usare lessico calcistico, nel contesto più difficile di tutti, un paese che ha costruito tutto il suo sviluppo sui combustibili fossili. L’atmosfera di Bonn è un modo per misurare quanto sarà difficile arrivare a un patto di Dubai credibile sulla mitigazione del danno, sotto la guida di un paese che ancora oggi ottiene il 90 per cento delle proprie entrate dalla causa del danno stesso, cioè le esportazioni oil & gas. Al Jaber, a Bonn e altrove, mette spesso sul piatto i progressi che gli Emirati stanno facendo sull’installazione di rinnovabili, provando a far passare la decarbonizzazione dell’economia di un paese di 10 milioni di abitanti come più importante del fatto che quello stesso paese ha il terzo tasso di crescita al mondo per estrazioni di petrolio e gas (dati Rystad Energy). E infatti il gioco delle parti interno all’autocrazia di Dubai ha fatto sì che la ministra per il Climate change, Mariam Almheiri, dicesse a Reuters che il mondo non è pronto a spegnere i combustibili fossili. Questa è la posizione di chi condurrà il negoziato. All’ultima riunione Opec+ gli Emirati hanno stretto un accordo per aumentare la produzione di petrolio di 200mila barili al giorno nel 2024.

Per capire quanto sarà inquinato il dibattito, basta seguire la segnalazione di Mark Owen Jones, ricercatore sull’autoritarismo nei paesi del Golfo, che ha segnalato come Twitter sia già invaso da account finti, che usano foto di stock, biografie inventate e spunte blu a pagamento per promuovere la politica estera e la decarbonizzazione degli Emirati e attaccarne i nemici. Il punto chiave lo ricorda James Lynch, co-direttore di Fair Square: democrazia e diritti umani. «Il livello di controllo interno degli Emirati non potrebbe essere mai raggiunto senza le esportazioni di petrolio e gas, che assicurano la fedeltà delle élite e svuotano il dissenso dall’interno». Per la famiglia Al Nahyan al potere, il business as usual non è solo una questione di profitti, è una questione di potere.

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