È stato quasi con un ghigno, sollevando gli occhi in modo teatrale, che Giorgia Meloni ha annunciato la partecipazione dell’Italia al fondo danni e perdite con 100 milioni di euro, la stessa cifra annunciata il giorno prima dagli Emirati e dalla Germania, e poco dopo dalla Francia.

È una somma molto più grande dei 17 milioni di euro messi sul piatto dagli Stati Uniti. Insomma, un ottimo modo per fare bella figura davanti a una platea globale sul clima, perché si sapeva che l’Italia avrebbe aderito, non che sarebbe stata così generosa.

Un sottotitolo per l’espressione della presidente del Consiglio mentre dava la notizia poteva tranquillamente essere "Non ve l'aspettavate, vero?”.

L'avvio di COP28 a Dubai è stato dominato dalla notizia che il fondo loss and damage si è trasformato da chimera istituzionale a strumento operativo e finanziato, grazie alla regia del presidente petroliere Sultan al Jaber.

Si possono dare diverse letture sull'improvvisa generosità di diversi paesi sviluppati nel finanziare uno strumento che fino a un anno fa era considerato qualcosa di impensabile.

Il riconoscimento attivo della responsabilità per il riscaldamento globale e i relativi danni era considerato una linea da non superare per quasi ogni paese industrializzato. Prima di questa corsa al portafoglio si registravano solo i pochi milioni messi sul piatto da Scozia e Danimarca.

Il fondo era qualcosa che i paesi del sud globale e i movimenti ambientalisti chiedevano da decenni, la prima proposta era quella della coalizione Aosis, gli stati insulari del Pacifico, e risaliva al 1991. Era quasi un grido di terrore dei paesi più esposti.

Rafforzare relazioni

L'Italia è diventata una paladina della giustizia climatica? Più prosaicamente, Sultan al Jaber ha trasformato l'adesione al fondo in un'opportunità di rafforzare relazioni, e non ci sarebbe niente di male se quelle relazioni non fossero fondate sui combustibili fossili, cioè la causa stessa del fatto che serve un fondo per compensare danni e perdite.

Quella registrata in questi giorni sul loss and damage a cui ha partecipato l'Italia è una delle contraddizioni cognitive più contorte mai osservate a una conferenza sul clima.

Facciamo un passo indietro. Sultan al Jaber aveva bisogno di una vittoria politica in grado di oscurare le contraddizioni dell’evento che sta guidando nel contestatissimo doppio ruolo di arbitro e giocatore.

Ha individuato quella potenziale vittoria nell’eredità della Cop precedente, quella egiziana, che aveva istituito formalmente il fondo senza però fornire alcun dettaglio e senza raccogliere un dollaro, lasciando l'idea che ci sarebbero voluti anni.

Jaber ha accettato la scommessa di renderlo operativo nei primi giorni della sua Cop. Per funzionare, aveva bisogno di una cordata di volontari disposti a collaborare: al Jaber ha di fatto trasformato questo strumento per la giustizia climatica in un club degli amici del sultano.

E infatti i più generosi sono stati i paesi europei più esposti con i combustibili fossili commerciati dagli Emirati. Cento milioni erano la quota premium di ingresso al club, trascurabile se paragonata ai contratti di fornitura per 12,2 miliardi di Maire Tecnimont e Saipem per lo sviluppo dei giacimenti di metano al largo di Abu Dhabi.

Committente? Adnoc, l'azienda petrolifera di stato guidata da al Jaber. Un altro partner di Adnoc è Eni, che è possiede il 25 per cento del giacimento Ghasha.

Dopo la guerra in Ucraina, Adnoc e gli Emirati sono diventati un partner energetico chiave anche per la Germania. Esattamente un anno fa, il cancelliere Scholz incontrava al Jaber, non per parlare di clima ma di gas e del «nuovo accordo che avrebbe rinforzato la partnership tra Emirati e Germania».

A luglio 2022 anche la Francia aveva stretto un nuovo accordo con al Jaber per aumentare la fornitura di gas e rimpiazzare quello russo.

Oggi i tre paesi si sono sdebitati, hanno scelto di contribuire al fondo loss and damage permettendo all'amico al Jaber di modificare la narrazione sulla sua Cop28, per una cifra tutto sommato ragionevole.

Il Canada ha sborsato 16 milioni, il Giappone 10 milioni, il Regno Unito 50 milioni non perché siano meno generosi, ma perché avevano meno obblighi con gli Emirati.

Potremmo chiamarla eterogenesi dei fini: grazie a questi accordi il fondo loss and damage è diventato una realtà, i paesi più danneggiati dalla crisi climatica hanno accolto con sollievo la svolta.

Conflitti strutturali

Rimane il fatto che la commistione tra politica, clima e combustibili fossili sta diventando impossibile da eliminare, in questa COP28 organizzata a Dubai.

Non bisogna nemmeno farsi illusioni sul futuro del fondo: le donazioni hanno superato i 400 milioni di dollari, quando la cifra stimata per i danni e le perdite va espressa in miliardi di dollari. Un rapporto Onu stima in una forchetta tra 150 e 300 miliardi la cifra che sarà necessaria ogni anno dal 2030 per mettere i paesi vulnerabili in condizione di affrontare gli effetti peggiori dei cambiamenti climatici, uragani, alluvioni, siccità, perdita di raccolti, innalzamento del livello dei mari.

Inoltre le donazioni sono volontarie e una tantum e non prevedono obblighi futuri. Il fondo loss and damage rimane una buona notizia, ma sarebbe pessima se si trasformasse in uno strumento per rallentare la mitigazione e continuare a commerciare idrocarburi per decenni.

Anche perché non ci sarebbe fondo in grado di compensare, se la temperatura sulla Terra arrivasse a +3°C rispetto all'era pre-industriale, come suggeriscono gli ultimi rapporti, a partire dall'Emission Gap 2023 dell’Onu. L'unico antidoto si chiama phase-out.

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