Sette uomini, dirigenti delle più grandi compagnie di tabacco degli Stati Uniti, hanno testimoniato, sotto giuramento, che la nicotina non crea dipendenza. Era il 14 aprile 1994. La Cnn e C-Span, televisione via cavo statunitense, hanno trasmesso l’udienza in diretta e, il giorno dopo, la foto dei dirigenti con la mano alzata in segno di giuramento era sulla prima pagina del New York Times. In realtà, le compagnie del tabacco già sapevano, grazie alle loro ricerche interne, che i fumatori erano dipendenti dalla nicotina.

Tra gli anni Cinquanta e Sessanta gli studi scientifici sulla connessione tra le sigarette e il cancro stavano diventando sempre più accurati e mettevano in pericolo il business di big tobacco. Il 14 dicembre 1953 gli amministratori delegati dei sei maggiori produttori di sigarette si incontrarono segretamente al Plaza Hotel di New York per discutere come agire. Oggi sappiamo che il risultato fu una strategia comune per attaccare e manipolare la scienza e ingannare il pubblico sui pericoli del fumo. Gli storici Naomi Oreskes e Eric M. Conway la chiamano «la strategia del tabacco».

È stata la via di fuga perfetta anche per le aziende di combustibili fossili – che hanno messo in atto una campagna di disinformazione sul clima durata decenni per nascondere il legame tra il proprio prodotto e l’aumento delle emissioni. Aziende come Exxon e Shell erano a conoscenza di questo legame perché, come nel caso delle compagnie di tabacco, avevano scienziati interni che avevano previsto in maniera estremamente accurata quello che sarebbe successo se avessero continuato con il business as usual. Quando è venuta alla luce questa storia, grazie a un’inchiesta che ha vinto il premio Pulitzer, è nato l’hashtag #Exxonknew, «Exxon sapeva».

Ma anche altre aziende sapevano. Secondo un nuovo studio, pubblicato il 20 ottobre da alcuni ricercatori del Crns, di Sciences Po e dell’Università di Stanford, anche la compagnia francese di petrolio e gas Total era a conoscenza dell'impatto sul clima almeno dal 1971 ed è stata impegnata in un aperto negazionismo della scienza del clima tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta. Inoltre, proprio come hanno fatto Exxon e altre compagnie nello stesso periodo, Total ha partecipato ad attività di lobbying per impedire la regolamentazione delle sue attività.

Rallentare le azioni

Per anni le aziende hanno agito al fine di ritardare e impedire un’azione politica per il clima e, per anni, hanno continuato a evadere la propria responsabilità nella crisi climatica. Ma oggi il «momento 1994» di Big Oil è più vicino di quanto non lo sia mai stato. Giovedì scorso c’è stata la testimonianza al Congresso sulla disinformazione climatica dei ceo di Exxon, Shell, Chevron, Bp, della Camera di Commercio americana e dell’American Petroleum Institute, gli «Slippery Six». È la prima volta che i dirigenti delle compagnie fossili hanno risposto a domande sotto giuramento sugli sforzi negazionisti dell’industria per bloccare l’azione per il clima. Si è trattata di un’udienza storica ed è arrivata nel contesto di un’indagine sul ruolo del settore fossile nella disinformazione sul clima aperta dall’Oversight Committee del Congresso americano, la principale commissione investigativa della Camera.

La responsabilità delle aziende fossili non ha solo a che fare con le emissioni o il negazionismo e la campagna di disinformazione sul clima. Gli interessi di queste compagnie – supportati da finanziamenti e lobby di potere – sono tra i principali motivi per cui l’azione politica sulla crisi è così lenta, nonostante la scienza del clima sia a conoscenza di cause e conseguenze del fenomeno da più di cinquant’anni. Inoltre, generalmente le aziende non sono vincolate da impegni nazionali e non fanno parte di accordi internazionali come, per esempio, l’Accordo di Parigi.

La Cop26 che inizia domani è un momento cruciale proprio perché nessuno – né governi né aziende – può più permettersi di ostacolare o rimandare l’azione sul clima. Anche se il gruppo negazionista per eccellenza, l’Heartland Institute, indice ancora un congresso annuale dove sostiene che la crisi climatica non è davvero una crisi, fuori da questi circoli negare l’esistenza o la gravità dell’emergenza climatica è sempre più difficile, anche per i negazionisti.

Le nuove strategie, dunque, confluiscono in un bacino di sforzi orientati a quella che viene chiamata procrastinazione climatica, un atteggiamento che appartiene sia ai governi che resistono completamente all’azione politica sul clima, rimandandola di continuo, sia a quei governi che promuovono soluzioni false inadeguate o poco efficaci.

Fermare la scienza

Le soluzioni, quelle vere ed efficaci, ci sono. Ma la strada è in salita e gli ostacoli all’azione sono ancora tanti. È di pochi giorni fa la notizia di alcuni documenti trapelati e analizzati da Unearthed, piattaforma investigativa di Greenpeace Uk, che mostrano come un gruppo di paesi abbia cercato di influenzare e modificare l’ultimo rapporto dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (Ipcc).

I documenti trapelati riguardano più di 32mila osservazioni fatte dai governi al team di scienziati che compila il rapporto dell’Ipcc. I commenti di aziende e governi al rapporto non sono nulla di nuovo. Tra l’altro, il metodo degli scienziati dell’Ipcc è molto rigoroso e i commenti dei governi sono centrali al suo processo di revisione scientifica, sostengono gli scienziati.

Gli autori del rapporto non hanno alcun obbligo di incorporare i commenti nei rapporti e tutti sono giudicati esclusivamente sulla base di prove scientifiche, indipendentemente dalla loro provenienza, sostiene Unearthed. È comunque importante, però, evidenziare che la notizia è indicativa di quello che accade dietro le quinte e delle pressioni che vengono esercitate da aziende e governi per ostacolare l’azione sul clima, ancora oggi, in un momento in cui non è mai stato così necessario cambiare rotta.

La fuga di notizie, per esempio, mostra che un certo numero di paesi, esportatori di carbone e grandi emettitori, sostengono che non è necessario ridurre l’uso dei combustibili fossili così rapidamente come raccomanda il rapporto Ipcc.

Altri, grandi produttori di carne, si oppongono alle prove del rapporto secondo cui la riduzione del consumo di carne è necessaria per ridurre le emissioni di gas serra. Secondo Bbc News, i documenti trapelati mostrano un «lobbying» governativo che è sempre esistito. Le compagnie di combustibili fossili hanno sostenuto i principali paesi produttori di carbonio, come gli Stati Uniti, la Cina, l’Australia, la Russia, il Canada e l’Arabia Saudita che, in più occasioni, hanno agito – direttamente o indirettamente, ma sempre intenzionalmente – per evitare la transizione energetica e la decarbonizzazione. Questa dinamica, tanto più che siamo alle porte della Cop26, è un problema. Inoltre, le politiche fiscali, di sussidio e di regolamentazione nei principali paesi produttori di carbonio favoriscono ancora in modo sbilanciato i fossili.

Attualmente, secondo il più recente rapporto dell’International Energy Agency (Iea), i combustibili a base di carbonio forniscono circa l’80 per cento dell’energia mondiale e questa percentuale, sostengono gli scienziati, deve scendere praticamente a zero nei prossimi 30 anni.

Se la Cop26 avrà come risultato quello di ottenere impegni concreti da parte dei principali paesi emettitori di carbonio, di mantenere la temperatura al di sotto di 1,5° C, di adempiere agli impegni finanziari dei paesi più ricchi nei confronti del sud globale, allora sarà servita a qualcosa. La scienza del clima è chiara, gli ostacoli all’azione non sono mai stati un problema scientifico. Gli interessi economici e politici dietro alla procrastinazione e al lobbying andrebbero sostituiti da una considerazione su tutte: i costi dell’inazione sul clima sono immensi. Soprattutto in termini di vite.

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