Il clima è uno dei campi in cui più rilevante appare la metamorfosi della destra italiana nel passaggio dall' opposizione al governo del paese. Alla Conferenza di Dubai, appena conclusa, nessuno tra le delegazioni si interrogava su cosa avrebbe detto o fatto la presidente del Consiglio Meloni, e da tempo erano state messe da parte le preoccupazioni rispetto alle posizioni del passato sul tema. Nei negoziati il Governo italiano si è mosso nel più completo allineamento e coordinamento con l'Unione europea e dunque, almeno in apparenza, con la richiesta di accelerazione nella direzione della decarbonizzazione che solo poco tempo fa si considerava velleitaria e sbagliata.

Questo cambio di strategia va salutato come positivo e importante, eppure non deve sfuggire la partita che si è aperta a livello internazionale, che ora avrà un’ulteriore spinta con l'accordo uscito dalla Cop28, e dei rischi che sta correndo il Paese. La transizione da un sistema energetico e industriale incentrato sulle fonti fossili ad uno ad emissioni tendenti a zero sarà la stella polare della trasformazione che il mondo avrà nei prossimi anni. Su questo punto oramai non esistono più dubbi, che invece purtroppo rimangono nella delegazione italiana a Dubai e nel Governo Meloni. Il problema è che questo scetticismo condanna il nostro Paese e la nostra economia ad un ruolo sempre più marginale a livello internazionale, ad una sostanziale irrilevanza rispetto alle scelte che definiranno il futuro prossimo.

Nella Cop28 questa situazione era plasticamente raccontata dalla differenza tra il padiglione italiano e quello degli altri paesi europei. Entrando in quello tedesco, francese o spagnolo, persino in quello greco, si capiva immediatamente su quali priorità il Governo e il sistema industriale volevano puntare in chiave interna e di politica estera, su quali direttrici di cooperazione internazionale in chiave climatica, su quali tecnologie e progetti di mitigazione e adattamento. Il messaggio che veniva da quello con la bandiera tricolore era di un Paese che ha diversi progetti, che sta portando avanti con maggiore o minore convinzione, ma che in realtà continua a guardare al gas e a un fantomatico Piano Mattei per l’Africa i cui contorni rimangono ancora piuttosto vaghi.

L'interesse del paese

Ha ragione Giorgia Meloni: dobbiamo uscire da un approccio ideologico alle questioni ambientali. Con il suo indubbio intuito politico ha ben compreso che gli italiani sono preoccupati dalla crisi climatica, come confermano tutti i sondaggi, vedono con preoccupazione il futuro del Pianeta e chiedono risposte a chi sta al governo. Non slogan o radicalismi, ma scelte chiare «che non compromettano la sfera economica e sociale», come ha spiegato la presidente del Consiglio nel suo intervento alla Cop28. E un approccio di questo tipo, pragmatico e risolutivo, sarebbe fortemente apprezzato dall’opinione pubblica e dal mondo delle imprese. Andrebbe a riempire uno spazio politico su cui il Pd continua a risultare poco credibile, per non parlare dei Cinque Stelle.

Anche perché oggi tutti concordano che la sfida che ci aspetta nei prossimi anni è quella di ridurre le emissioni di gas climalteranti nel modo più efficace, al minor costo e con un bilancio positivo in termini di posti di lavoro, in un Paese dove imprese e famiglie scontano ancora il peso degli aumenti dei prezzi e dell'inflazione legati alla guerra in Ucraina e alla dipendenza dalle importazioni di gas e petrolio dall'estero. Il punto debole del discorso della Meloni sta però nel fatto che fino ad oggi dal Governo sono arrivati proprio slogan, risposte contraddittorie e una sola chiara scelta: quella di fare della penisola l’hub del gas della sponda sud europea del mediterraneo e dell’Eni l’ambasciatore italiano nel mondo. Per chiarezza, tutto comprensibile e già visto, tutti i Paesi puntano sui propri campioni nazionali. Ma la domanda che occorre porsi è se oggi gli interessi di Eni coincidano con quelli del Paese.

E poi aprire un confronto in cui davvero le ideologie siano messe da parte e si guardi ai numeri. Perché i dati raccontano di un Paese che usa sempre meno gas e che certamente sempre di meno ne utilizzerà nei prossimi anni. Perché le politiche europee a cui siamo vincolati prevedono di migliorare l’efficienza negli usi industriali, di elettrificare i sistemi di riscaldamento degli edifici, di far crescere e integrare le rinnovabili nei sistemi energetici per dare sempre più efficaci risposte ai fabbisogni termici ed elettrici. E la novità è che oggi queste innovazioni tecnologiche funzionano, sono competitive, per cui imprese e famiglie guardano in questa direzione con sempre maggiore interesse per ridurre la spesa energetica.

Mentre di sicuro le bollette non potranno ridursi continuando a importare gas, come abbiamo verificato sulla nostra pelle in questi anni, in balia di un quadro internazionale incerto e persino se riusciremo a diventare il più integrato hub metanifero del mediterraneo. Anzi, il rischio è che gli investimenti che stiamo facendo – per realizzare nuovi gasdotti con le risorse di RepowerEU e nuovi rigassificatori con soldi prelevati dalle bollette – risultino un fardello perché nel frattempo tutti i paesi europei stanno puntando a ridurre i consumi di gas. Se questo è il quadro, forse l’approccio ideologico ai problemi energetici sta proprio nelle stanze di palazzo Chigi.

Il sole del Mediterraneo

A Dubai, il Sultano Al Jaber presidente della Cop in quanto paese ospitante e di una delle più grandi aziende dei combustibili fossili, per difendere la sua credibilità dagli attacchi degli ambientalisti portava ad esempio i giganteschi impianti di solare fotovoltaico in costruzione nel deserto. Attenzione, non è greenwashing, ma più concretamente la constatazione che oggi da un punto di vista economico conviene produrre energia elettrica dal sole, piuttosto che bruciando petrolio, anche in questa parte del mondo. E la stessa cosa vale ovviamente per tutti i paesi del Mediterraneo, senza differenze di colore politico del Governo. Vale per il Portogallo e la Spagna, con governi socialisti che possono affiancare numeri record di produzione crescente da rinnovabili e bassi prezzi dell’energia che noi ci sogniamo.

Ma vale anche per il governo di destra di Mitsotakis, che a Dubai nel suo padiglione metteva in mostra il progetto di conversione a energie pulite delle proprie isole e che sta vedendo un boom delle rinnovabili senza precedenti. Nessuna ideologia ambientalista, semplice interesse nazionale a valorizzare quanto madre natura mette a disposizione generosamente in questa parte del mondo. Purtroppo c’è anche l’altro lato della medaglia. Perché il mediterraneo è l’area del pianeta dove le temperature dell’aria e del mare stanno aumentando più vistosamente.

Le conseguenze più eclatanti le abbiamo viste a settembre in Libia con l’uragano Daniel che ha devastato il territorio con migliaia di morti e una forza che non apparteneva a queste longitudini. Quelle meno vistose, ma più pericolose, le vediamo nella desertificazione che aumenta per la riduzione delle piogge e l’aumento delle temperature, e che sta rendendo inabitabili territori sempre più estesi, costringendo tante persone a emigrare. Alla Cop di Dubai si è discusso e litigato su come supportare finanziariamente gli interventi di adattamento climatico, in particolare nei Paesi più poveri, e che stanno subendo più danni, con qualche risultato positivo e l’impegno a ritornare meglio sulla finanza climatica nella prossima Cop29 di Baku.

Su queste due grandi sfide, una politica industriale espansiva per il solare e la difesa del territorio da impatti sempre più intensi e frequenti, l’Italia balbetta con qualche idea e promesse. Gli altri Paesi europei stanno invece definendo e portando avanti, con accanto il proprio sistema di imprese e spesso con le Ong, progetti di cooperazione internazionale sempre più importanti nelle aree del mondo strategiche per i propri interessi nazionali. Poi ci sono i paesi che possiedono petrolio e gas, che difendono con le unghie e con i denti. In mezzo ci sta il governo italiano.

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