Per gli Emirati Arabi Uniti, la piccola ma potente petrolmonarchia del Golfo, la riduzione delle emissioni è un affare serio.

Il paese si è impegnato a raggiungere la neutralità carbonica entro il 2050 e a ridurre del 40 per cento le proprie emissioni entro il 2030, sulla base degli Accordi di Parigi sul clima.

L’impegno, rimarcato di recente anche dalla ministra del Cambiamento climatico e dell’Ambiente, è in linea anche con gli impegni presi dal paese in vista della prossima conferenza internazionale sul clima, che si terrà tra novembre e dicembre proprio ad Abu Dhabi.

Le parole però non corrispondono alla realtà dei fatti e a pagare per il greenwashing degli Eau sono i già paesi africani.

Secondo l’analisi pubblicata a luglio dal Climate action tracker (Cat), gli Emirati mancheranno in larga parte gli obiettivi di riduzione delle emissioni, dato che i programmi per l’espansione della produzione di petrolio e gas non sono stati modificati.

Il paese in realtà ha messo sul tavolo 54 miliardi di dollari da destinare all’energia solare e nucleare per ridurre le sue emissioni, ma gli investimenti nel fossile continuano ad essere tre volte superiori, confermando così i timori del Cat.

Gli Emirati sembrano aver trovato un modo alternativo per risolvere il problema, almeno in apparenza. Il fondo Blue Carbon, gestito dallo sceicco Ahmed Dalmook al Maktoum, membro della famiglia reale di Dubai, è pronto a vendere crediti di carbonio all’Emirato e ai paesi del Golfo interessati a ridurre - almeno sulla carta - le proprie emissioni senza intervenire realmente sul proprio modello di produzione.

Lo schema è abbastanza semplice. Il fondo sigla con i governi degli accordi per la gestione e la protezione di aree verdi e rivende i crediti di carbonio (o carbon credits), un titolo equivalente ad una tonnellata di CO2 non emessa o assorbita tramite un progetto di tutela ambientale per ridurre o riassorbire le emissioni di anidride carbonica e altri gas ad effetto serra.

In questo modo anziché ridurre le proprie emissioni, le aziende possono investire in progetti di tutela o di riforestazione nel paese in cui operano o all’estero e ridurre così la propria impronta climatica. Almeno sulla carta.

Questi progetti di tutela ambientale coinvolgono nella maggior parte dei casi paesi in via di sviluppo e dovrebbero servire a promuovere l’autosufficienza economica delle popolazioni locali e a proteggere il territorio, aiutando nel contrasto al cambiamento climatico.

Nella pratica però ci sono diversi punti oscuri, anche a causa di una scarsa regolamentazione del mercato dei crediti di carbonio. Un argomento quest’ultimo che dovrebbe essere affrontato in occasione della Cop28 ad Abu Dhabi.

Gli interessi in Africa

Intanto però alcuni fondi hanno iniziato a siglare accordi per la compravendita di crediti di carbonio. Tra questi c’è anche l’emiratino Blue Carbon, che ad oggi gestisce circa 60 milioni di acri di foresta (una dimensione pari al Regno Unito) tra Liberia, Tanzania, Zambia e Zimbabwe.

L’accordo con la Liberia doveva essere annunciato proprio in occasione della Cop28, ma le informazioni sono trapelate prima del previsto, scatenando la reazione della società civile e degli attivisti. Il Memorandum - non ancora siglato - assegna per i prossimi 30 anni alla Blue Carbon i diritti esclusivi di utilizzo e controllo del 10 percento del territorio liberiano. In cambio, il fondo dovrebbe mettere in piedi progetti di protezione e ripristino delle aree verdi, ottenendo così dei crediti di carbonio da rivendere agli Emirati o alle aziende interessate.

Crediti a cui la Liberia dovrebbe quindi rinunciare, oltre a non poter più disporre di una parte consistente del proprio territorio nazionale.

L’accordo non è stato accolto positivamente dagli attivisti. Il Meccanismo indipendente di monitoraggio della foresta della Liberia, un gruppo formato da sette diverse Ong, ha contestato pubblicamente il testo del Memorandum ed evidenziato la violazione di diverse leggi nazionali, tra cui quella sui diritti di proprietà delle comunità che vivono nell’area.

I residenti saranno coinvolti nelle decisioni sui progetti da implementare solo successivamente e per tre mesi, un tempo molto breve se si considera che migliaia di persone vivono nel territorio che sarà ceduto al fondo emiratino.

Lo spazio concesso agli abitanti sarà poco anche all’interno del comitato che dovrà prendere le decisioni: su cinque membri, due saranno rappresentanti della Blue Carbon e uno del governo, per cui la società civile rischia di trovarsi in minoranza nelle decisioni sull’assegnazione dei fondi.

I profitti

Altra problematica riguarda la distribuzione dei profitti derivanti dalla vendita dei crediti di carbonio. Secondo la bozza dell’accordo, il fondo pagherà alla Liberia il 10 percento di royalties sulla vendita dei crediti di carbonio fino a quando non avrà recuperato il credito iniziale.

Da quel momento in poi, alla Blue Carbon andrà il 70 percento dei profitti e il 30 percento al governo liberiano, di cui circa la metà dovrebbe essere destinata alle comunità locali. Queste ultime, però, avranno ben poca voce in capitolo su come spendere questi fondi in un’area su cui non avranno più alcun diritto.

Alla iniqua spartizione dei profitti si aggiungono ulteriori incertezze: il valore dei crediti è difficile da definire e nel Memorandum viene detto ben poco sulle modalità di vendita, anche in mancanza di regole ben definite a livello internazionale.

La prossima Cop dovrebbe provare a risolvere il problema, definendo in maniera più chiara come valutare i crediti di carbone e garantendo maggiori tutele alle comunità locali, ma per alcuni paesi come la Liberia potrebbe essere troppo tardi. Progetti di tutela e conservazione della natura in cambio di crediti di carbonio potrebbero risultare effettivamente utili per l’ambiente, ma il caso della Blue Carbon dimostra come i paesi in via di sviluppo siano ancora i primi a pagare il prezzo di quelle che al momento sembrano più operazioni di greewashing.

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