Il rumore prodotto da navi, sonar e sondaggi sismici di vario genere sta soffocando il “mondo sonoro” che si trova negli oceani. Un «insieme schiacciante di prove» ha rivelato il danno prodotto dall’inquinamento acustico causato dall’uomo alla vita marina. Spiega Carlos Duarte che ha guidato lo studio: «Abbiamo degradato gli habitat come non mai e le specie marine si stanno impoverendo sempre più. Abbiamo messo a tacere la colonna sonora dell’oceano sano e l’abbiamo sostituita con il suono che creiamo noi uomini». Scrivendo sulla rivista Science, il professor Duarte della King Abdullah University, Arabia Saudita, dimostra nuovamente come le onde sonore artificiali possano viaggiare per migliaia di chilometri attraverso l’oceano. Negli ultimi decenni la ricerca sui suoni artificiali presenti negli oceani si è concentrata soprattutto sui danni prodotti ai mammiferi marini, come le megattere, le quali comunicando su grandi distanze con canti complessi e misteriosi sono chiaramente danneggiate dalle interferenze artificiali.

Ma il professor Duarte sostiene che ci sono prove che persino le larve di pesce appena schiuse non sono in grado di sentire «il richiamo di casa» quando si trovano alla deriva nell’oceano. «Abbiamo scoperto che tali minuscole larve sentono il richiamo dal loro habitat e lo seguono, ma ora quella chiamata non viene più percepita». La biologa marina Heather Koldewey della Zoological Society of London ha affermato che «quando gli animali si incontrano producono una cacofonia di suoni al cui interno vi sono saluti, richiami per la riproduzione e tanti altri segnali ancora sconosciuti all’uomo. È un aspetto importante ma trascurato di ciò che costituisce un oceano sano». Anche se la situazione è grave gli scienziati non sono così pessimisti tuttavia, nel ritenere che non ci possa essere una riduzione all’inquinamento acustico.

«L’anno scorso, quando il 60 per cento di tutti gli uomini era bloccato per la pandemia da Covid-19, il livello del rumore prodotto dagli uomini negli oceani si era ridotto di circa il 20 per cento», ha affermato Duarte. «Quella riduzione relativamente modesta è stata sufficiente per osservare situazioni che non si vedevano da decenni, come ad esempio grandi mammiferi marini – i più facili da osservare – avvicinarsi alle coste e nei corsi d’acqua dove non si vedevano da generazioni». Ciò ha dimostrato che affrontare questa “antrofonia” non è difficile e può offrire risultati sorprendenti. Se guardiamo al cambiamento climatico o all’inquinamento da plastica, si capisce che il percorso per arrivare a una soluzione è lungo e complesso, ma «abbassando anche di poco il volume dei nostri suoni, si ha una risposta della vita marina istantanea e sorprendente».

Sull’altro versante, quello dell’inquinamento acustico dell’aria, soprattutto delle nostre città e del traffico in genere, ha ricadute davvero importanti sulla vita degli uccelli, compromettendone alcune capacità. Uno studio che è stato pubblicato sulla rivista Proceedings of the Royal Society B, ha visto un gruppo di biologi concentrare i loro studi sui fringuelli zebrati, i quali sono stati sottoposti a prove di ricerca del cibo in presenza o in assenza di rumore prodotto dall’uomo. Risultato: il suono delle automobili diminuiva senza ombra di dubbio la capacità degli uccelli di trovare il cibo.

Spiega Christopher Templeton della Pacific University, in Oregon: «Il solo rumore di una macchina che passava era sufficiente a condizionare le prestazioni dei fringuelli». Un’altra ricerca ha scoperto che gli uccelli hanno mutato il proprio canto durante il periodo silenzioso del confinamento causato dalla pandemia, riportandolo a quello che emettevano molti anni fa, in luoghi più silenziosi. Un altro studio ancora, ha provato che i rumori antropici hanno seri impatti sui grilli, che perdono la capacità di riconoscere i canti di corteggiamento. Gli scienziati auspicano che se ridurre i rumori antropici nelle città è difficile se non impossibile si deve fare del tutto per non incrementarli almeno nelle aree ancora libere dall’uomo.

Morti da inquinamento

Secondo una nuova ricerca dell’Università di Harvard, in collaborazione con l’Università di Birmingham, l’Università di Leicester e l’University College di Londra, nel 2018 sono morte più di otto milioni di persone a causa dell’inquinamento da combustibili fossili, un valore significativamente più alto di quanto suggerito da ricerche precedenti. I ricercatori hanno stimato che l’esposizione al “particolato” ha rappresentato il 18 per cento delle morti globali del 2018, poco meno di una persona deceduta su cinque. Secondo lo studio pubblicato sulla rivista Environmental Research, le regioni con le più alte concentrazioni di inquinamento atmosferico correlato ai combustibili fossili, tra cui il nord America orientale, l’Europa e il sud-est asiatico, hanno i più alti tassi di mortalità. Il precedente studio che riassumeva la situazione a livello planetario era il Global Burden of Disease Study, secondo il quale le morti per il medesimo periodo erano state quattro milioni.

La discrepanza dunque, è notevole. Per spiegare ciò va detto che le ricerche precedenti per stimare le concentrazioni annuali del particolato aerodisperso, ossia del Pm2.5, si basavano su osservazioni satellitari e di superficie. C’è da sottolineare però che tali osservazioni non sono in grado di distinguere le particelle delle emissioni di combustibili fossili da quelle di polvere, fumo di incendi o altre fonti. Spiega Loretta Mickley, della Harvard John Paulson School of engineering and applied sciences (Seas) e coautrice dello studio: «Con i dati satellitari, vedi solo alcuni pezzi del puzzle. È difficile per i satelliti distinguere tra i tipi di particelle e conseguentemente possono esserci delle lacune nei dati e nei risultati. Per superare il problema, i ricercatori di Harvard si sono rivolti a GEOS-Chem, un modello 3-D globale di chimica atmosferica realizzato al Seas da Daniel Jacob.

Tale modello aveva già dato risultati estremamente precisi per altre misurazioni che erano poi state confermate da osservazioni reali. Per un modello globale, GEOS-Chem ha un’elevata risoluzione spaziale, il che significa che i ricercatori hanno potuto suddividere il globo in una griglia con riquadri da 50 chilometri x 60 chilometri e studiare la situazione per ogni singolo rettangolo. «Piuttosto che ottenere medie su grandi regioni, volevamo mappare dove si trova realmente l’inquinamento e dove vivono le persone, in modo da poter sapere più esattamente cosa respirano», ha detto Karn Vohra, dell’Università di Birmingham e primo autore dello studio. Per modellare il Pm2.5 generato dalla combustione di combustibili fossili, i ricercatori hanno inserito le stime delle emissioni di più settori, tra cui energia, industria, navi, aerei e trasporti terrestri e le simulazioni delle distribuzioni degli aerosol nell’atmosfera realizzati dal Nasa Global Modeling in GEOS-Chem.

Lo studio è partito dal 2012 per arrivare al 2018 e ha tenuto conto anche delle riduzioni di emissioni inquinanti ottenute dai provvedimenti cinesi. Una volta ottenuta la concentrazione di Pm2.5 nell’aria, i ricercatori hanno voluto capire come quei livelli influivano sulla salute dell’uomo. Sebbene sia noto da decenni che le particelle sospese nell’aria sono un pericolo per la salute pubblica, sono stati effettuati pochi studi epidemiologici per quantificare i reali impatti a livelli di esposizione molto elevati come quelli riscontrati in Cina o in India. I coautori Alina Vodonos e Joel Schwartz, professore di epidemiologia ambientale presso la Harvard TH Chan school of public health (Hsph), hanno sviluppato un nuovo modello di valutazione del rischio che collegava i livelli di concentrazione di particolato dalle emissioni di combustibili fossili alla salute delle persone. Risultato: il tasso di mortalità è risultato più elevato rispetto a quanto si supponeva, anche a concentrazioni inferiori rispetto ai dati ottenuti.

«Spesso, quando si parla dei pericoli della combustione dei combustibili fossili, lo si fa nel contesto della CO2 e dei cambiamenti climatici e trascuriamo il potenziale impatto sulla salute degli inquinanti co-emessi con i gas serra», ha detto Schwartz. «Ci auguriamo che quantificando le conseguenze sulla salute della combustione di combustibili fossili, possa essere un messaggio chiaro ai responsabili politici e alle parti interessate sui vantaggi di una transizione verso fonti energetiche alternative. I ricercatori hanno stimato che la decisione della Cina nel 2018 di ridurre le emissioni di combustibili fossili di quasi la metà ha salvato 2,4 milioni di vite in tutto il mondo, di cui 1,5 milioni solo in Cina.

Occhi puntati su Marte

Dopo l’arrivo in orbita marziana delle sonde emiratina Hope – il cui compito scientifico sarà quello di studiare l’atmosfera marziana – e Cinese Tianwen-1 – che oltre a porre in orbita una navicella porterà sulla superficie marziana un rover – è ora la volta del rover della Nasa Preseverance. Atterrerà sul pianeta rosso il 18 febbraio alle ore 21 e 55 italiane e sarà il quinto rover a esplorare Marte dal 1997. L’atterraggio è previsto all’interno del cratere Jezero (che ha un diametro di circa 49 chilometri) vecchio di circa quattro miliardi di anni e al cui interno si ipotizza possa esserci stato un grande lago. Sarà impegnato in una missione di astrobiologia per cercare segni di antica vita microbica e tenterà di far volare per la prima volta un elicottero-drone, da 1,8 chilogrammi, su un altro mondo.

Perseverance, in grado di navigare autonomamente per 200 metri al giorno, raccoglierà campioni di roccia che potrebbero fornire indizi inestimabili sul fatto che ci sia stata vita passata su Marte. Alcuni di questi campioni verranno sigillati in capsule ermetiche che verranno raccolte da una missione che verrà lanciata nel 2026 e riportate a terra. Il rover ha le dimensioni di un piccolo suv, pesa una tonnellata, ha 19 telecamere e due microfoni che permetteranno di registrare suoni marziani prodotti soprattutto dal vento. La missione durerà almeno due anni.

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