Sono poco più di due anni che John Kerry è inviato per il clima degli Stati Uniti, è stata la prima nomina di Joe Biden da neo-presidente. L’ex segretario di Stato, che nel 2015 aveva firmato l’accordo di Parigi per conto degli Usa, è diventato l’infaticabile ambasciatore della leadership statunitense nella lotta ai cambiamenti climatici.

È una posizione scomoda quella di Kerry, deve convincere il mondo a fare quello che chiede l’amministrazione Usa, ma anche spiegare agli stessi interlocutori – in maggioranza autocrazie o paesi diversamente democratici – le contraddizioni di questo stesso processo.

L’ultima di queste contraddizioni è stata il via libera al progetto Willow di ConocoPhillips in Alaska, una nuova perforazione sopra il Circolo polare artico da 600 milioni di barili in trent’anni. La notizia ha avuto l’effetto di una detonazione, perché ha smentito in un colpo solo sia l’Agenzia internazionale dell’energia (niente nuove estrazioni di petrolio) sia Biden stesso (nel suo programma c’era lo stop a estrazioni nuove su suolo federale). Insomma, certi giorni per Kerry essere l’inviato per il clima è trovarsi a spiegare le virtù di una dieta vegana con una fiorentina sul piatto.

Realismo contro tecno-ottimismo 

L’ultima intervista di Kerry al quotidiano britannico Guardian contiene almeno una notizia di portata storica, quando dice che «affidarsi alla cattura di CO2 dall’atmosfera è pericoloso», perché il carbonio, invece di toglierlo per via tecnologica (strada mai provata su scala necessaria), dobbiamo smettere di mettercelo.

È una presa di posizione apprezzata delle organizzazioni ambientaliste, realismo climatico contro l’illusione del tecno-ottimismo. Intorno a queste parole promettenti, però, c’è il felpato imbarazzo del diplomatico di esperienza, costretto a rispondere a una domanda su come un nuovo progetto da 9 milioni di tonnellate di emissioni di CO2 all’anno come Willow si inserisca nel piano americano di riduzione di quelle stesse emissioni.

«Non avrà un impatto profondo. Non voglio dire che sarà senza impatto, ma non sarà significativo». È una risposta disonesta, perché la crisi climatica non è mai causata da un solo pozzo di petrolio, ma dalla somma di tutte le bombe di carbonio innescate nel mondo. Per fare un parallelo militare, dire «è solo un’altra bomba» non può essere spacciato per pacifismo.

Ed è disonesta perché le emissioni non vanno solo contate, vanno anche pesate politicamente. La decisione Usa di insistere su nuove estrazioni è l’ennesimo salvacondotto offerto alle altre economie per spostare in avanti di decenni la transizione, quando sarà troppo tardi per gli stessi punti di non ritorno ecologici che Kerry menziona a ogni intervista.

Azioni e reazioni

I combustibili fossili sul piano geopolitico funzionano come le armi nucleari durante la Guerra fredda: ogni escalation locale contribuiva a quella globale, è un gioco di azioni e reazioni, per questo Oms e parlamento europeo chiedono un trattato di non proliferazione sul modello di quello del 1968 sulle armi atomiche.

Kerry conosce questo meccanismo, il suo lavoro in questo momento è contenere il danno reputazionale e politico della notizia Willow in attesa che l’Inflation Reduction Act inizi a mostrare i suoi effetti e il bisogno di petrolio cominci a declinare negli Usa non perché ecologicamente dannoso ma perché economicamente superato.

È la scommessa americana, un’idea con una sua logica industriale e finanziaria, ma intorno a questa logica c’è il livello delle relazioni e delle percezioni internazionali. E lì la storia è meno sottile e suona così: gli americani continuano a considerarsi un’eccezione, proteggono il proprio sviluppo estraendo nuovo petrolio mentre continuano a fare profitti col gas liquefatto. Con questo segnale, diventa difficile sostenere le ragioni della de-escalation fossile. Non è colpa di Kerry, in fondo conosciamo il proverbio delle pene e dell’ambasciatore, ma l’inviato di Biden continua a girare il mondo per raccontare una storia che fa acqua da troppe parti.

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