Un gruppo di ricercatori guidato dall’Università di Leeds del Regno Unito, utilizzando dati ottenuti dai satelliti Ers, Envisat e CryoSat dell’Esa, nonché dalle missioni Copernicus Sentinel-1 e Sentinel-2 ha messo in luce come la velocità con cui la Terra ha perso ghiaccio è aumentata notevolmente negli ultimi tre decenni, da 0,8 miliardi di miliardi di tonnellate agli inizi degli anni Novanta a 1,3 miliardi di miliardi di tonnellate all’anno nel 2017.

Per avere un’idea di quanto sia un miliardo di miliardo di tonnellate si pensi a un cubo di ghiaccio di 10x10x10 chilometri. Lo studio, pubblicato su The Cryosphere, dimostra che, nel complesso, c’è stato un aumento del 65 per cento del tasso di perdita di ghiaccio durante i 23 anni oggetto di studio. Ciò è stato causato principalmente dal forte aumento delle perdite avutesi dalle calotte polari dell’Antartide e della Groenlandia. Lo scioglimento dei ghiacci da calotte e ghiacciai innalza il livello del mare, aumenta il rischio di inondazioni nelle comunità costiere, con gravi conseguenze per la società, l’economia e l’ambiente.

L’autore principale, Thomas Slater, ricercatore presso il Centro di Osservazione e Modellazione polare di Leeds, ha affermato: «Sebbene ogni regione del pianeta che abbiamo studiato ha perso del ghiaccio, le perdite dalle calotte glaciali dell’Antartide e della Groenlandia sono quelle che ne hanno perso maggiormente. In questo momento le calotte glaciali si comportano come previsto dal peggiore tra gli scenari previsti dal Gruppo Intergovernativo sui Cambiamenti Climatici. L’innalzamento del livello del mare, se il tutto continuerà in questo modo, avrà impatti molto gravi sulle comunità costiere già in questo secolo».

Lo studio è il primo nel suo genere a esaminare tutto il ghiaccio che sta scomparendo sulla Terra, utilizzando osservazioni satellitari. L’indagine ha studiato 215mila ghiacciai di montagna sparsi in tutto il Pianeta, le calotte polari in Groenlandia e in Antartide, le piattaforme di ghiaccio che galleggiano intorno all’Antartide e il ghiaccio marino alla deriva nell’Artico e nell’Oceano Meridionale. L’aumento della perdita di ghiaccio è stato innescato dal riscaldamento dell’atmosfera e degli oceani, che si sono riscaldati rispettivamente di 0,26° C e 0,12° C per decennio dal 1980. Durante il periodo di indagine, c'è stata una perdita di 7,6 miliardi di miliardi di tonnellate di ghiaccio marino artico e una perdita di 6,5 miliardi di miliardi di tonnellate dalle piattaforme dei ghiacci antartici, entrambe galleggianti sugli oceani polari.

La metà di tutte le perdite di ghiaccio si sono avute sulla terraferma, inclusi 6,1 miliardi di miliardi di tonnellate dai ghiacciai di montagna, 3,8 miliardi di miliardi di tonnellate dalla calotta glaciale della Groenlandia e 2,5 miliardi di miliardi di tonnellate dalla calotta glaciale antartica. Queste perdite hanno innalzato il livello globale del mare di 35 millimetri. Si stima che per ogni centimetro di innalzamento del livello del mare, circa un milione di persone nelle regioni di pianura rischia di essere sfollato.

Lavoro da casa e inquinamento

Lavorare da casa significa un minor uso di mezzi da trasporto e quindi un minor inquinamento. Ma “minore” di quanto? A prima vista sembrerebbe che la risposta sia “di tanto” visto che a starsene seduti in casa non c’è inquinamento apparente. Ma uno studio pubblicato su Resources, Conservation & Recycling da un gruppo di ricercatori fa riflettere su questa facile affermazione.

Stando ai dati raccolti un’ora di videoconferenza, ad esempio, emette da 150 a 1.000 grammi di anidride carbonica (un litro di benzina utilizzata da un’auto ne emette circa 2.500 grammi) e necessita di una decina di litri di acqua. Dunque non poco.

Ma la ricerca ha anche trovato che basterebbe lasciare la fotocamera spenta durante una chiamata via internet per ridurre il tutto del 96 per cento. Questo vale anche per l’utilizzo di internet per la visione di film, serie o documentari in televisione, ma anche in questo caso se anziché vedere il materiale in alta definizione lo si guarda in definizione standard si può ridurre l’inquinamento anche dell’86 per cento. Lo studio dice che da marzo 2020 in poi, alcuni paesi hanno segnalato un aumento di almeno il 20 per cento del traffico Internet e, se ciò continuerà fino alla fine del 2021, tale aumento necessiterebbe di una foresta di circa 185mila chilometri quadrati (poco più della metà della superficie dell’Italia) per sequestrare il carbonio emesso.

L’acqua in più necessaria per l’elaborazione e la trasmissione dei dati sarebbe sufficiente per riempire più di 300mila piscine olimpioniche.

Pericolo dighe

Secondo un’analisi dell’Unu (Università delle Nazioni Unite), entro il 2050, una grande quantità delle persone che vivranno sulla Terra si troveranno a valle di decine di migliaia di grandi dighe costruite nel ventesimo secolo, molte delle quali avranno un’età ben superiore a quella considerata come massimo periodo di vita. Il rapporto afferma che la maggior parte delle 58.700 grandi dighe presenti in tutto il mondo (che immagazzinano tra 7.000 e 8.300 chilometri cubi d’acqua) sono state costruite tra il 1930 e il 1970, con una vita progettuale compresa tra i 50 e i 100 anni, ma con la certezza che a 50 anni una grande diga in cemento «avrebbe iniziato, molto probabilmente, a manifestare segni di invecchiamento».

Il rapporto sottolinea che dighe ben progettate, costruite e mantenute con le procedure più avanzate possono raggiungere anche i 100 anni di servizio, ma in tal caso i costi di manutenzione sarebbero tali che andrebbero contro ogni criterio economico. È per questo che in paesi ad alto reddito come Stati Uniti, Francia, Canada, Giappone, India, ma anche in paesi a reddito più basso come Zambia o Zimbabwe lo smantellamento di vecchie dighe è sempre più comune. Spiega Vladimir Smakhtin, direttore di Unu-Inweh, uno degli autori dello studio: «Al pericolo dell’invecchiamento naturale delle dighe si deve aggiungere il fatto che la crescente frequenza e gravità delle inondazioni e di altri eventi ambientali estremi possono accorciare ulteriormente i limiti della vita di progettazione di una diga e accelerarne il processo di invecchiamento».

Gli alieni e i buchi neri

Se terminasse tutta l’energia che un pianeta può dare a una civiltà che lo abita e terminasse anche quella della propria stella a chi potrebbe rivolgersi una civiltà super-tecnologicamente avanzata per ottenere energia per la propria sopravvivenza? A un buco nero, proprio a quei mostri che tutto inglobano se gli si passa troppo vicino.

Lo sostiene l’astrofisico Luca Comisso della Columbia University di New York il quale ha pubblicato una ricerca su Physical Review D. L’idea era già stata avanzata nel 1969 da Roger Penrose in uno studio che egli fece sui buchi neri, ma non venne mai approfondita nei dettagli. Il metodo per catturare energia sarebbe, ovviamente, estremamente complesso, ma si dovrebbe realizzare appena al di qua del confine dell’orizzonte degli eventi ossia la sfera al di là della quale nulla è più in grado di sfuggire al buco nero stesso. Appena al di qua invece, secondo ipotesi ampiamente accettate, si verifica un fenomeno particolare che vede particelle in avvicinamento a esso dividersi in due e talora, se il buco nero ruota a una velocità abbastanza elevata, metà della particella supera l’orizzonte degli eventi mentre l’altra metà ritorna indietro.

I calcoli dei fisici mostrano che le particelle che cadono nel buco nero potrebbero avere un’energia negativa, ma, anche se intuitivamente sembra impossibile da capire, far cadere una particella con energia negativa in un buco nero vuol dire praticamente ottenere una particella simile con energia positiva, e dunque avere energia a disposizione. Ma per fare ciò sarebbe necessario catturare la particella in caduta poco prima che questa superi realmente l’orizzonte degli eventi, altrimenti non ci sarebbe più nulla da fare. Stando a Comisso non sarebbero solo singole particelle a produrre energia in tal modo, ma anche enormi quantità di plasma che potrebbero essere sottoposti però allo stesso effetto e quindi produrre quantità di energia enormi.

Ovviamente nulla è alla nostra portata, ma la teoria lascia ben sperare. C’è un fatto interessante secondo lo scienziato che varrebbe la pena approfondire ulteriormente. Se si catturasse del plasma in prossimità di un buco nero si darebbe origine ad un brillamento molto evidente.

A volte fenomeni simili sono stati osservati proprio vicino a buchi neri noti, ma sono stati spiegati in altri modi. Ma se fossero state civiltà intelligenti a estrarre energia? Non lo sappiamo, ma è innegabile che questa potrebbe essere una strada per cercare civiltà aliene estremamente avanzate dal punto di vista tecnologico.

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