È stata una settimana terribile, di quelle in cui il prezzo di informarsi e informare rischia di essere la salute mentale (a parte il comic relief offerto dai problemi sentimentali di Giorgia Meloni venerdì mattina, ma su quello poco da dire, a parte forse un seminario di geologia).

Mi è capitato di chiedermi: qual è il posto del clima in tutto questo? Mentre la Storia fa il suo corso, e si svolge così sporca e piena di dolore, ci sono momenti in cui ti chiedi: qual è il posto di ogni altra cosa che ho a cuore? L'assedio e il bombardamento di Gaza, così come il massacro del 7 ottobre in Israele, sono eventi che abbiamo consumato in diretta, non hanno lasciato margine per altro, ciclo quotidiano di distogliere e posare lo sguardo, ma sempre lì.

Le altre conversazioni, tutte, hanno avuto qualcosa di storto, di fuori posto, è complicato riprendere il senso delle proporzioni a livello personale e giornalistico: le conseguenze energetiche delle elezioni in Polonia, quelle locali in Trentino trasformate in un referendum sugli orsi, lo stanchissimo dibattito sull'energia nucleare in Italia, un paio di convegni di negazionisti, il Consiglio europeo che ha deciso la posizione negoziale dell'UE a COP28.

Non è successo granché (anche se scrivo di venerdì e questo weekend sarà meteorologicamente instabile), come se l'agenda dell'ambiente si fosse fermata ad aspettare. Sono giorni in cui l'inesorabilità sorda della crisi climatica è auto-evidente, la notizia più importante del secolo ma mai la notizia più importante della settimana, sicuramente non di questa settimana.

È difficile occuparsi delle condizioni di vita nel 2030, 2050, 2070, quando il presente è questo groviglio di sangue, fame, sete e paura per milioni di persone. E però l'angoscia che viene da Gaza e Israele, a noi che abbiamo il privilegio di vivere sugli spalti, e quindi di poterci distaccare, ci ricorda che combattere la crisi climatica è innanzitutto un atto di speranza su vasta scala.

Poter dedicare una parte del proprio tempo umano e politico al futuro e non solo all'immediato presente è un privilegio da mettere a frutto. Il posto del clima in settimane come questa forse è offrire - in tutta la paura che questa crisi giustamente ci farà sempre - anche uno spazio in cui il futuro si può ancora progettare e in cui soprattutto il futuro esiste ancora, come categoria esistenziale e politica. È, appunto, un privilegio che noi abbiamo e altri no. Sfruttiamolo. Questo è il numero 142 di Areale, buon sabato.

La trappola del fatalismo

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«In una situazione simile è difficile non cedere al fatalismo. I mulini a vento non sono mai sembrati tanto grandi, le lance che abbiamo passato anni ad affilare a volte paiono stuzzicadenti, persino tra gli scienziati climatici più combattivi qualcuno comincia a mostrare segni di scoramento».

Fabio Deotto ha scritto su Lucy un articolo sul fatalismo climatico (contro il fatalismo climatico), cioè quell'idea che «ok, il mondo sta finendo, ma ogni sforzo si è rivelato vano, perciò tanto vale vivere la nostra vita e sperare per il meglio». Sono quelli che io chiamo i divanisti della fine del mondo, «familiare di Peroni e rutto libero». Lo sappiamo che non è vero, che non tutto è perduto, ma la sociologia del novecento ci insegna che tutto quello che viene considerato reale, sarà reale nelle conseguenze.

Il fatalismo climatico è più diffuso del negazionismo, è il suo cugino presentabile scrive Deotto, è più socialmente accettato. Forse non dobbiamo considerare negazionismo e fatalismo climatico solo come categorie che si escludono a vicenda, punti diversi su una linea, ma come stati d'animo tra i quali tante persone oscillano a seconda dei giorni.

A volte sono rassegnate alla realtà, a volte la negano e basta, a seconda di come la realtà si sta offrendo e degli strumenti che hanno a disposizione in quel momento per processarla. Il negazionismo pesca dalla realtà alternativa costruita da un manipolo di lunatici di cui conosciamo nomi e cognomi. Il fatalismo invece è più sottile, infido. Il negazionismo è come un sistema di istruzione parallelo, mentre il fatalismo è un’educazione sentimentale collettiva all'impotenza.

Il fatalismo si nutre dell'associazione mentale tra il cambiamento sociale e il fallimento, l'idea che sia tutto inutile perché è sempre stato tutto inutile. Questa però è un'astuzia dello status quo, che è in grado di farci pensare a ogni cambiamento sociale come spontaneo e naturale e non come frutto di lotte fatte da persone e movimenti.

Realismo capitalista, direbbe qualcuno, le cui riforme sono solo autocorrezioni, mentre le sue persistenze sono i fallimenti degli altri. Se lo status quo cambia è merito suo, se non cambia è colpa nostra. Non è vero, però.

La storia dell'essere umano è la storia di impatti che si tramandano attraverso le generazioni fino a diventare invisibili. Ma ci sono stati, l'impensabile a un certo punto è diventato pensato, poi è diventato un fatto e poi è diventato un fatto scontato e poi ce ne siamo dimenticati e nessun fatalista è mai stato coinvolto in questo processo.

La sfida del clima è più complessa di qualsiasi cambiamento sociale abbiamo affrontato finora. È qualcosa che le democrazie non erano attrezzate a processare, cicli di cinque anni contro scale trentennali o secolari. Da un lato il mandato, dall'altro la geologia. È difficile. Eppure in trent'anni di azione (e diciamo otto di azione seria) la traiettoria della crisi climatica è stata abbassata, e di molto. Non a sufficienza, ma ce lo ricordiamo il mondo pre-accordo di Parigi?

Ho avuto una conversazione interessante sul Green Deal, questa settimana, e sul realismo. Vale come esempio del discorso generale, diciamo. Il Green Deal è un robusto tentativo di riforma dello status quo che lo status quo ci sta abituando a considerare invisibile. È un piano perfetto? No. Ma è un piano reale. A seconda del contesto di radicalità in cui mi trovo a parlare, vedo espressioni variegate quando do questa informazione: il Green Deal dell'Unione Europea è il miglior piano clima al mondo. Cioè: è il migliore tra quelli reali. Perde contro quelli immaginari, ma vince nel campo della realtà, e la crisi climatica sta nel campo della realtà. Non è D&D. Il fatalismo climatico si combatte anche così. Si può avere una lettura radicale della realtà e conservare allo stesso tempo la concretezza che ti fa apprezzare le soluzioni del mondo reale. 

Distopia climatica

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La lunga siccità con cui il Rio delle Amazzoni arriva alla stagione delle piogge è il primo indizio che ci mostra come può essere la combinazione di riscaldamento globale e della fase ciclica di El Niño in cui è entrata la Terra quest'anno, che avrà l'effetto di potenziare la crisi climatica per un anno o due.

Il Rio delle Amazzoni e i suoi affluenti in Brasile sono ai minimi storici da oltre 120 anni, le acque sono diventate così tossiche che si assiste alla moria incontrollata della fauna (tra cui cento delfini morti tutti insieme, o migliaia di pesci venuti a galla tutti insieme nel lago Tefè per motivi ancora da chiarire) e le barche sono a secco nei fiumi, mettendo in ginocchio anche parte dell'economia locale, che dipende prevalentemente dall'acqua.

Manaus, capitale dello stato di Amazonas, è stata descritta da Jonathan Watts del Guardian come una «distopia climatica»: circondata da incendi, isolata perché senz'acqua nei fiumi e con livelli di inquinamento da record.

La stagione delle piogge potrà alleviare gli effetti di questa siccità, ma non spostare la foresta amazzonica e il suo bacino idrico, dove c'è un quinto dell'acqua dolce della Terra, dal punto di non ritorno dove si trova oggi, sull'orlo di un possibile cambiamento totale di ecosistema, da zona umida a zona arida. L'avvicinamento al punto di non ritorno è il frutto di un circolo vizioso, con la riduzione della foresta che fa inceppare il ciclo dell'acqua, portando stress idrico estremo.

Questa carenza di acqua impedisce alla foresta stessa di trovare un equilibrio, facendo perdere ancora più suolo, alberi e biodiversità. Più la foresta diventa piccola, meno sarà resiliente. C'è il rischio concreto di arrivare a una soglia oltre la quale la foresta non riesce più a riprendersi da disturbi come quelli di quest'anno: non è dove siamo ora, non sappiamo quanto ci siamo vicini, ma sappiamo che è un rischio reale.

Una volta superata quella soglia, la foresta amazzonica diventa sempre più simile a una savana, con effetti catastrofici per tutto il clima globale, perché si perderebbe il più grande bacino di assorbimento di carbonio al mondo. Potrebbe accadere nel giro di decenni.

L'Amazzonia brasiliana oggi è nel centro di una tempesta perfetta climatica. Il riscaldamento globale ha allungato la durata della stagione secca, portando la foresta a dover reggere più stress idrico per più giorni.

Lo stato di Amazonas ha avuto inoltre una stagione degli incendi particolarmente intensa, con il numero record di 2770 diversi roghi durante la fase secca dell'anno, che hanno aumentato la perdita di suolo forestale e reso l'aria irrespirabile.

Quest'anno in tutto sono bruciati 18mila chilometri quadrati di foresta amazzonica e ci sono stati giorni in cui Manaus aveva più del doppio di particelle inquinanti per metro cubo di una metropoli come São Paulo e risultava la seconda città al mondo per tossicità dell'aria.

L'assenza di acqua nei fiumi ha tagliato fuori dal resto del paese diverse comunità alle quali si accede solo con imbarcazioni. La morte improvvisa dei delfini di fiume ha aumentato le preoccupazioni anche per la biodiversità della regione, che sembra sempre meno in grado di reggere questa «distopia climatica».

È stata la ministra della scienza e della tecnologia del Brasile, Luciana Santos, ad attribuire a El Niño questa complicata situazione. Da mesi nella comunità scientifica si discute di come potranno reggere gli equilibri del pianeta con il carico di questa fase di Niño (che è ciclica e naturale, anche se da tempo non arrivava così forte) sopra quello che già abbiamo di riscaldamento globale causato dalle attività umane.

Venivamo da tre anni di La Niña, che è il ciclo opposto e che ha di solito un effetto di abbassamento delle temperature. La Niña potrebbe averci «nascosto» alcuni degli aspetti peggiori del riscaldamento globale, che invece ora ci troviamo potenziati per la fine del 2023 e per tutto il 2024: la crisi idrica in Amazzonia è la prima illustrazione da mondo reale di cosa potrà significare tutto questo.

Crisi climatica e missioni di pace

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Forse anche questo è il posto del clima di cui si parlava in apertura di questo numero di Areale: non si possono più fare missioni di pace senza tenere conto dell'emergenza climatica e senza un training specifico per le forze in campo su questo tema.

Ho letto questo intervento di Farah Hegazi, ricercatrice dello Stockholm International Peace Research Institute, e mi sembra pertinente rispetto alla policrisi di questo mese. Serve una formazione specifica per le operazioni sul campo delle Nazioni Unite e di altre forze di pace, perché cambiamenti climatici, peacekeeping e sicurezza si influenzano a vicenda, e perché la risposta alla crisi climatica e il peacebulding possono avere punti di contatto.

È un invito utile a smantellare la logica a silos sulle catastrofi umanitarie, per cui o si affronta un'emergenza climatica o si rammendano gli effetti di guerra. Molto spesso chi si trova a operare sul campo deve affrontare entrambe le cose.

Hegazi fa una serie di esempi concreti. La missione Un in Somalia ha dovuto gestire nuovi conflitti imprevisti causati dalla scarsità di risorse idriche, quella in Sud Sudan ha dovuto navigare diversi effetti sistemici della crisi climatica, tra cui inondazioni continue che, in un paese già in ginocchio, hanno fatto mezzo milione di nuovi sfollati nel 2022, in comunità che avevano già una storia di tensioni e di conflitti.

E fa strano parlarne oggi, ma anche la Striscia di Gaza subisce gli effetti della crisi climatica, che si vanno a sommare all'assedio, alla fame e alla guerra. Secondo la Croce Rossa Internazionale Gaza è (anche) una frontiera della crisi climatica: innalzamento del livello del mare, erosione, diminuzione delle precipitazioni, ondate di calore, crisi agricola, che colpiscono un territorio che ha già le vulnerabilità sociali e geopolitiche conosciamo. Dovremo a un certo punto parlarne.

Un viaggio lunghissimo

Forse conoscerai la storia di Gianluca Grimalda. In brevissimo, è un ricercatore di psicologia sociale, era in missione in Papua Nuova Guinea per studiare gli impatti della crisi climatica sulla psiche e le comunità. Pur trovandosi lontanissimo da casa, ha deciso di non tornare in aereo, per coerenza col suo impegno accademico sui temi del clima e col suo attivismo.

Per questo motivo è stato licenziato dal Kiel Institute, ma non ha mollato, ecco. Il viaggio di Gianluca quindi sarà lungo, è una storia interessante, gli ho chiesto se gli andava di raccontarci ogni tanto qui su Areale com'è fare un viaggio così lungo, cosa ci perdiamo del mondo e della sua geografia quando scegliamo di o dobbiamo volare. Questo è il primo capitolo, che parte, com'è giusto che sia, dalle ragioni della sua scelta.

«Ho appena iniziato il mio “viaggio lento” di 27,000km da Bougainville, piccola isola sperduta nel mezzo del Pacifico, all’Europa. È la quarta volta che vengo qui per studiare impatto sociale e psicologico del cambiamento climatico. È la prima che riesco a rientrare interamente “no-fly” in un viaggio che dovrebbe durare due mesi viaggiando su navi merci, traghetti, treni e pullman. Lo faccio per abbattere le mie emissioni di CO2, che sono di 10 volte inferiori con il viaggio lento che con l'aereo.

Questa mia determinazione al viaggio lento mi è costata il posto di lavoro. L’Istituto presso cui lavoravo non ha tollerato il protrarsi del mio lavoro di ricerca oltre al prestabilito, e, a fine settembre, mi ha intimato di rientrare in sede entro 5 giorni. Ovviamente prendendo un aereo. Mi sono rifiutato, per 3 motivi. In primis, desideravo rimanere fedele ai miei principi, per i quali è da 10 anni che non prendo aerei a meno che non sia strettamente indispensabile.

La mia presenza in sede non era indispensabile, visto che non devo insegnare e gli incontri si tengono online. Secondo, avevo promesso a tutti i 1800 partecipanti alla mia ricerca che avrei fatto il possibile per alleviare le loro sofferenze per il surriscaldamento globale, e quindi sarei rincasato a basso contenuto di carbonio. Un abitante di Bougainville produce attorno a 0,3 tonnellate annue di CO2, contro le 9,7 di un europeo e le 20,8 di uno statunitense.

Tutti i villaggi costieri visitati hanno già sofferto un’esperienza di migrazione verso l’interno a causa dell’innalzamento del livello del mare. Ai residenti delle comunità montane manca cibo quando il periodo di siccità si prolunga dalle consuete 3 settimane a 6 settimane. Infine, ho pensato che la notizia del mio licenziamento avrebbe attirato attenzione alla causa ambientale in una maniera che mai più mi si sarebbe presentata.

So bene che commettere sacrifici in nome della propria morale rafforza la propria credibilità ed amplifica la portata del messaggio. Così è stato per molti che mi hanno sostenuto sui media, ma non per altri che hanno giudicato la mia scelta come folle.

Tuttavia, in un’epoca dove gli ecosistemi si stanno letteralmente sgretolando di fronte ai nostri occhi, penso che la vera follia sia andare avanti con il “business as usual”, come se tutto fosse sotto controllo, piuttosto che spingere in avanti i confini di ciò che è normale e ciò che non lo è in un’epoca di crisi climatica».

Per questa settimana è tutto, passa un buon weekend. Se vuoi scrivermi, la mail è ferdinando.cotugno@gmail.com, puoi anche venire a dare un'occhiata al canale Telegram di Areale, qui. Infine, per parlare con la redazione, la mail è lettori@editorialedomani.it. Ciao!

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