Negli ultimi cinquant’anni anni la perdita dei raccolti agricoli in Europa a causa della siccità è triplicata. È questo il risultato di una ricerca pubblicata su Environmental Research Letters da un gruppo di ricercatori portoghesi dell’Universidade Nova de Lisboa e tedeschi del Max-Planck-Institut.

È ormai noto da tempo che i cambiamenti climatici sono alla base di importanti perdite di raccolti, ma tra i fenomeni climatici e meteorologici più importanti, quali siccità, ondate di calore o di freddo e inondazioni, quelli che hanno una maggiore impatto sulle rese agricole sono senza dubbio siccità e ondate di calore. I danni sono più che triplicati e le perdite salite dal 2,2 per cento nel periodo tra il 1964 e il 1990 al 7,3 per cento tra il 1991 e il 2015.

Stando alla ricerca non ci sarebbero dubbi sul fatto che le siccità stanno diventando sempre più frequenti, ma anche più intense e prolungate. Lo studio pone attenzione sul fatto che i fenomeni possano avere effetti “a cascata” sul sistema e sui prezzi dei generi alimentari a livello mondiale.

C’è un esempio che viene sottolineato ed è ciò che è avvenuto nel 2018 quando una parte dell’Europa venne colpita da una forte siccità la quale causò una diminuzione dell’8 per cento della produzione di cereali rispetto alla media dei 5 anni precedenti e questo causò una carenza nell’approvvigionamento di foraggio per il bestiame con un conseguente forte aumento dei costi delle materie prime.

C’è comunque da sottolineare un fatto che rende meno drammatica la situazione e che è stato spiegato da Teresa Bras, della Faculdade de ciências e tecnologia dell’Universidade Nova de Lisboa: «I cereali, che interessano circa il 65 per cento dell’area coltivata europea, il cui scopo principale è quello di nutrire gli animali, sono i più colpiti dalle siccità e dalle ondate di calore rispetto ad altri raccolti, i quali, per fortuna, sono in aumento del 3 ogni anno».  

Secondo i ricercatori, al momento coltivazioni provenienti da frutteti e ortaggi, soffrono meno per la siccità grazie all’irrigazione, ma ciò non significa che in futuro non potrebbero anch’essi essere fortemente colpite.

Vi è anche un altro studio che recentemente si è concentrato sulla produttività agricola a livello mondiale ed è stato pubblicato su Nature Climate Change e realizzato da ricercatori di tre università americane.

Anche da questo lavoro si riscontra che vi è stata una forte riduzione nella produzione agricola degli ultimi anni. Spiega David Lobell, uno dei ricercatori: «La produttività agricola a livello mondiale è del 21 per cento inferiore a quella che si sarebbe avuta se non ci fosse stato il cambiamento climatico degli ultimi anni. Ciò ha comportato una perdita di circa 7 anni di aumento della produttività agricola dagli anni Sessanta ad oggi».

In altre parole è come se i miglioramenti in agricoltura si fossero fermati al 2013 e da allora non fosse stato fatto nulla. Questo fa capire come nonostante l’agricoltura si affidi sempre più a innovazioni tecnologiche, il problema climatico rimane fondamentali nella gestione dei raccolti.

Gli impatti del cambiamento climatico sono stati maggiori nelle aree già più calde del pianeta, dall’Africa all’America Latina fino all’Asia. Sottolinea Ortiz-Bobea, un altro degli autori: «Poiché i climatologi ci dicono che la temperatura terrestre è di circa 1 grado Celsius superiore a quella che ci sarebbe stata se l’uomo non avesse immesso nell’atmosfera grandi quantità di gas-serra, dobbiamo prendere atto che il sistema climatico è alterato e anche se la maggior parte della popolazione del mondo percepisce il cambiamento climatico come un problema lontano, in realtà le ricadute stanno già avendo effetto. Dobbiamo affrontare il cambiamento climatico ora, in modo da evitare ulteriori danni per le generazioni future. E qui si parla di sostentamento delle persone».

Crescita delle rinnovabili

La strada della diffusione delle energie rinnovabili sembra sempre più percorsa a livello globale. Nel 2020, stando alle stime dell’International Renewable Energy Agency (Irena), sono stati aggiunti alle precedenti installazioni 261 GW portando a un incremento del 10,3 per cento rispetto al 2019.

L’Italia in tutto questo si mostra con due facce distinte. Se da un lato i dati del 2019 messi a disposizione dal Gse (quelli del 2020 non ci sono ancora) dicono che si sono raggiunti gli obiettivi europei fissati per la diffusione delle energie rinnovabili per il 2020, gli obiettivi previsti per il 2030 sembrano difficili da poter ottenere.

L’incremento delle energie rinnovabili del 2019 rispetto al 2018 infatti, è stato solo del 2,2 per cento, corrispondente ad una aggiunta di 1,19 GW, che comunque – come si legge dal rapporto – è stato l’incremento più alto degli ultimi 5 anni.

Da sempre l’energia idroelettrica la fa da padrone con il 40 per cento della produzione complessiva delle energie rinnovabili, seguita dal solare (20,4 per cento), dall’eolico (17,4 per cento), dalle bioenergie (16,9 per cento) e dal geotermico (5,2 per cento).

Il “punto di non ritorno” per un ghiacciaio

Una ricerca pubblicata su The Cryosphere da un gruppo internazionale di scienziati guidato da Sebastian Rosier della Northumbria University ha rivelato per la prima volta che il ghiacciaio di Pine Island, che si trova nell’Antartide occidentale, ha raggiunto e forse superato il “punto di non ritorno”.

Si tratta di una situazione che lo porterà a un rapido ritiro che risulterà irreversibile in tempi umani, con ricadute importanti sull’innalzamento del livello marino. Per la sua struttura, il ghiacciaio di Pine Island si muove velocemente verso il mare e occupa una superficie dell’Antartide occidentale estesa per circa la metà di quella della penisola italiana.

Il ghiacciaio è motivo di particolare preoccupazione in quanto sta perdendo più ghiaccio di qualsiasi altro ghiacciaio in Antartide. Già da alcuni decenni la fusione di Pine Island e del vicino ghiacciaio Thwaites è responsabile di circa il 10 per cento dell’aumento globale del livello del mare.

Spiega Rosier: «Questa regione dell’Antartide potrebbe raggiungere un punto di svolta e subire una ritiro irreversibile da cui non potrebbe riprendersi. Un tale ritiro, una volta iniziato, potrebbe portare al collasso dell’intera calotta glaciale dell’Antartide occidentale, che contiene abbastanza ghiaccio da innalzare il livello globale del mare di oltre 3 metri».

Da tempo si ipotizzava che alcuni ghiacciai dell’Antartide avrebbero potuto raggiungere il punto di non ritorno, ma che lo abbia raggiunto un ghiacciaio di tali dimensioni come lo è Pine Island non ce lo si aspettava proprio.

Gli studi si svolgono attraverso rilevamenti sul posto, ma anche per mezzo di modelli che ricostruiscono il flusso del ghiaccio. In tre momento diversi, in questi ultimi anni, il ghiacciaio di Pine Island ha subito delle evoluzioni in senso negativo e l’ultima si è verificata quando nell’area la temperatura del mare è salita di 1,2 °C rispetto alle medie del passato.

«Le tendenze a lungo termine della situazione che si è venuta a creare potrebbero esporre la banchisa glaciale di Pine Island ad acque più calde per periodi di tempo molto lunghi e ciò porterà all’irreversibilità della situazione», ha sottolineato il ricercatore, il quale ha aggiunto: «La possibilità che il Pine Island entri in un ritiro instabile è stata avanzata in passato, ma questa è la prima volta che se ne ha la certezza. Questo è un importante passo avanti nella nostra comprensione delle dinamiche di quest’area ed è importate che ora siamo in grado di fornire finalmente risposte certe ad importanti domande. Dobbiamo ricordarci che questi studi riguardano anche noi. Se il ghiacciaio dovesse entrare in un ritiro instabile e irreversibile, l’impatto sul livello del mare potrebbe essere misurato in metri e, come dimostra questo studio, una volta iniziato il ritiro sarà impossibile fermarlo».

L’inquinamento luminoso regna 

Tra i tanti inquinamenti che interessano il nostro pianeta vi è anche quello luminoso che sta diventando un serio problema per la ricerca astronomica. Si tratta delle luce che l’uomo lancia verso il cielo impedendo ai telescopi di vedere nel buio della notte.

Ma esiste anche un’altra forma di inquinamento luminoso che sta interessando sempre più i cieli che stanno sopra le nostre teste ed è talmente diffuso che secondo un nuovo studio della Royal Astronomical Society, non esiste più un luogo sulla Terra che non ne sia interessato.

Sembra infatti, che non esiste fetta di cielo dove puntando un telescopio prima o poi non si venga disturbati da satelliti artificiali o da rifiuti che si sono accumulati nello spazio negli ultimi decenni. Il problema dei satelliti artificiali e della luce che emettono è noto da anni nel mondo dell'astronomia e si sta facendo sempre più grave man mano che si moltiplicano le aziende che li spediscono in orbita. SpaceX, la società spaziale di Elon Musk ad esempio, ha portato in orbita terrestre oltre mille satelliti dal 2019 ad oggi: le scie luminose che lasciano nel cielo durante le loro orbite creano seri problemi agli astronomi e agli astrofili, tant’è che SpaceX ha già preso provvedimenti che riguarda la riduzione di luminosità dei propri satelliti futuri, fino a ridurla di circa un quarto di quella attuale.

Inoltre, stando a Miroslav Kocifaj, autore dello studio, anche i satelliti artificiali contribuiscono all’inquinamento luminoso in quanto raccolgono la luce del Sole e la riflettono disperdendola nell’atmosfera. Ciò, stando ai calcoli fatti, fa aumentare l’inquinamento luminoso di circa il 10 per cento, anche nei luoghi più bui del pianeta.

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