L’Universo ci ricorda costantemente quanto la vita sia un fenomeno raro e prezioso. Il nostro pianeta, per quanto ne sappiamo, rimane l’unico esempio di un luogo in grado di ospitare la vita, un miracolo evolutosi da semplici organismi procarioti unicellulari. Ma la ricerca di vita oltre la Terra non si ferma. Gli scienziati sono da tempo alla ricerca di Luca (Ultimo Antenato Comune Universale), la cellula ancestrale da cui discendono tutti gli esseri viventi. E Marte rimane un obiettivo primario in questa ricerca.

Oggi, Marte si presenta come un paesaggio desertico e inospitale. Tuttavia, recenti esplorazioni, come quelle dei rover Perseverance e Curiosity, hanno rivelato la presenza di composti e minerali che suggeriscono un passato potenzialmente abitabile. Ma la vita, se mai esistita, non è stata ancora trovata. Escludendo i pianeti vicini, troppo caldi o gassosi, l’attenzione degli scienziati si è rivolta verso le lune di Giove e Saturno, in particolare Europa ed Encelado.

La scoperta

Questi satelliti ghiacciati nascondono oceani di acqua liquida, un ingrediente fondamentale per la vita come la conosciamo. Anche se non ospitano esseri intelligenti, potrebbero ospitare semplici organismi unicellulari. Quasi 6.000 pianeti extrasolari, chiamati esopianeti, sono stati scoperti orbitanti attorno a stelle diverse dal Sole. Sebbene solo pochi siano considerati potenzialmente abitabili e siano attualmente oggetto di studio l’universo è un “posto gigantesco”. Difficile immaginare che siamo gli unici ad abitarlo.

Fino agli anni Sessanta, la vita era considerata possibile solo in condizioni simili a quelle terrestri: acqua, temperature miti, pH neutro, bassa salinità e luce solare. Ma la scoperta di batteri in sorgenti termali con temperature superiori a 70°C ha aperto nuove prospettive. Da allora, sono stati scoperti organismi estremofili in una varietà di ambienti estremi sulla Terra: dal freddo del ghiaccio polare alle alte pressioni degli abissi oceanici, da ambienti estremamente salini ad ambienti estremamente acidi, alcuni persino resistenti alle radiazioni.

La scoperta più sorprendente è avvenuta nel nostro stesso corpo. I dottori australiani Barry Marshall e Robin Warren hanno scoperto l’Helicobacter pylori, un batterio in grado di sopravvivere nell’ambiente altamente acido dello stomaco umano, un luogo che si riteneva inospitale alla vita. Questa scoperta ha rivoluzionato la nostra comprensione della vita e ha dimostrato che anche in condizioni estreme, la vita può resistere e prosperare. Lo studio dei microrganismi estremofili offre una nuova speranza nella ricerca di vita extraterrestre.

Se la vita può esistere in ambienti estremi sulla Terra, allora potrebbe essere presente anche su altri corpi celesti, come Marte o le lune ghiacciate di Giove e Saturno. I marziani che sogniamo oggi potrebbero non essere molto diversi dall’Helicobacter pylori che vive nel nostro stomaco: esseri semplici, ma resistenti, capaci di adattarsi a condizioni estreme.

New Horizons verso nuove frontiere

La sonda spaziale New Horizons della Nasa, celebre per il suo storico sorvolo del sistema di Plutone nel luglio 2015, si prepara per nuove avventure dopo aver sorvolato Arrokoth, un oggetto della Fascia di Kuiper, il 1° gennaio 2019. Ora, l’attenzione di New Horizons si sposta verso nuovi orizzonti scientifici. Un recente studio delle Accademie Nazionali degli Stati Uniti ha sottolineato l’importanza di continuare a ricevere dati da questa sonda e dalle Voyager (le sonde più lontane dalla Terra), sottolineando come siano gli unici strumenti in grado di fornire informazioni dirette sull’ambiente dell’eliosfera esterna e oltre.

La sonda si sta preparando ad attraversare lo “shock terminale” del Sole, una regione dove il vento solare rallenta e diventa subsonico scontrandosi con il mezzo interstellare, ossia le particelle e le radiazioni che arrivano da altre stelle. Questo evento, previsto potenzialmente già nel 2027, rappresenta un’opportunità unica per studiare i confini del sistema solare.

Attualmente, New Horizons è in modalità ibernazione per preservare le sue risorse, ma continua a raccogliere dati eliofisici 24 ore su 24, immagazzinandoli nella sua memoria interna. Il risveglio è previsto per il 2 aprile, quando i dati accumulati saranno trasmessi al Deep Space Network della Nasa. La missione presenta delle sfide, tra cui la limitata quantità di propellente rimasta, che potrebbe precludere ulteriori sorvoli di oggetti della Fascia di Kuiper. Tuttavia, la collaborazione con osservatori terrestri, come il Vera Rubin Observatory, potrebbe aumentare le probabilità di individuare nuovi obiettivi lungo la rotta della sonda.

Un team di eliofisica di New Horizons, composto da scienziati e ingegneri, è al lavoro per prepararsi all’attraversamento dello shock terminale. Questo evento permetterà di ottenere misurazioni fondamentali sugli ioni “pick-up”. Gli ioni pick-up sono ioni che vengono “prelevati” dal mezzo interstellare e accelerati dal vento solare, costituito da particelle emesse dal Sole. Questo processo avviene quando gli atomi neutri del mezzo interstellare entrano nell’eliosfera e vengono ionizzati dalla radiazione solare o dalle interazioni con il vento solare.

Una volta ionizzati, questi atomi diventano ioni che vengono “prelevati” e accelerati dal campo magnetico del Sole, diventando parte del vento solare. New Horizons è dotata di strumenti all’avanguardia, come il Solar Wind Around Pluto (Swap) e il Pluto Energetic Particle Spectrometer Science Investigation (Pepssi), che permetteranno di effettuare misurazioni uniche di questi ioni così interessanti, ma al contempo ancora misteriosi.

Il team di New Horizons è consapevole di seguire le orme delle sonde Voyager, ma è anche entusiasta di contribuire con nuove scoperte e misurazioni uniche sui confini esterni dell’eliosfera. L’attraversamento dello shock terminale, un evento che potrebbe durare pochi minuti o protrarsi per giorni a causa del movimento dell’onda d’urto, sarà un altro momento storico per New Horizons e fornirà dati preziosi per la comunità scientifica.

La sonda potrebbe anche imbattersi in una nuova regione della Fascia di Kuiper (la fascia di comete e asteroidi che si trovano oltre Nettuno), aprendo nuove opportunità per la scienza planetaria e la comprensione dei sistemi esoplanetari. Il decimo anniversario del convegno scientifico sul sorvolo di Plutone, previsto per luglio, sarà l’occasione per celebrare le scoperte di New Horizons.

La CO2 che non ti aspetti

Per contrastare gli effetti delle emissioni di gas serra, la comunità scientifica sta concentrando i propri sforzi sulla comprensione dell’impatto crescente dei livelli di anidride carbonica (CO2) sugli ecosistemi terrestri, con particolare attenzione alle foreste tropicali. Il climatologo César Terrer, docente di Ingegneria Civile e Ambientale (CEE) al MIT, e il collega Josh Fisher della Chapman University hanno intrapreso un’innovativa ricerca in un contesto unico: un vulcano attivo in Costa Rica.

Livelli elevati di CO2 possono innescare il cosiddetto effetto fertilizzante, un fenomeno in cui le piante crescono più velocemente e assorbono maggiori quantità di carbonio, esercitando un effetto raffreddante. Sebbene questo effetto possa potenzialmente mitigare i cambiamenti climatici in modo naturale, la misura in cui le piante possono continuare ad assorbire carbonio rimane incerta. Gli scienziati temono che le piante possano raggiungere un punto di saturazione, perdendo la loro capacità di compensare l’aumento di CO2 atmosferica.

Comprendere queste dinamiche è cruciale per previsioni climatiche accurate e lo sviluppo di strategie per gestire il sequestro del carbonio. Terrer spiega il suo approccio innovativo e le motivazioni che lo hanno spinto a partecipare al progetto: «Josh Fisher, un climatologo e collaboratore di lunga data, ha avuto l’idea brillante di sfruttare i livelli di CO2 naturalmente elevati vicino ai vulcani attivi per studiare l’effetto fertilizzante in condizioni reali. Condurre tale ricerca in fitte foreste tropicali come l’Amazzonia – dove esistono le maggiori incertezze sulla fertilizzazione del CO2 – è impegnativo. Richiederebbe serbatoi di CO2 su larga scala e un’infrastruttura estesa per distribuire uniformemente il gas tra gli alberi imponenti e gli intricati strati della chioma – un compito che non è solo logisticamente complesso, ma anche molto costoso. Il nostro approccio ci consente di aggirare questi ostacoli e raccogliere dati critici in un modo che non è stato fatto prima».

Gli esperimenti all’interno del Parco Nazionale Rincon de la Vieja sono particolarmente interessanti perché le concentrazioni di CO2 nelle aree vicino al vulcano sono quattro volte superiori alla media globale. Questo offre ai ricercatori una rara opportunità di osservare come l’elevata CO2 influisce sulla biomassa vegetale in un ambiente naturale, qualcosa che non è mai stato tentato su questa scala. Per misurare le concentrazioni di CO2, è stata installata una rete di 50 sensori nella chioma della foresta circostante il vulcano.

Questi sensori monitorano continuamente i livelli di CO2, consentendo ai ricercatori di confrontare le aree con emissioni di CO2 naturalmente elevate con le aree di controllo con concentrazioni di CO2 atmosferica tipiche. I sensoririmarranno in posizione per un anno intero, catturando un set di dati continuo sulle fluttuazioni di CO2. L’obiettivo principale della ricerca è determinare se l’effetto fertilizzante del CO2 può essere sostenuto o se le piante raggiungeranno un punto di saturazione, limitando la loro capacità di assorbire ulteriore carbonio.

Comprendere questa soglia è fondamentale per migliorare i modelli climatici e le strategie di mitigazione del carbonio. Per ampliare la portata delle misurazioni, i ricercatori stanno esplorando l’uso di tecnologie aerotrasportate – come droni o sensori montati su aeroplani – per valutare lo stoccaggio di carbonio su aree più vaste.

Questa ricerca potrebbe offrire approfondimenti critici sul futuro ruolo delle foreste nella mitigazione dei cambiamenti climatici, aiutando scienziati e politici a sviluppare bilanci di carbonio e proiezioni climatiche più accurate. Se l’approccio avrà successo, potrebbe aprire la strada a studi simili in altri ecosistemi, approfondendo la comprensione di come la natura risponde all’aumento dei livelli di CO2.

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