Ci siamo quasi. Il 30 novembre, giovedì, parte la Cop28 di Dubai. Per quelle due settimane, proprio come l'anno scorso, Areale arriverà nella tua posta ogni giorno verso sera, bollettino quotidiano sui lavori, sui negoziati, sulle speranze, sugli ostacoli. Gli obiettivi li conosciamo: ci sarà un accordo per triplicare le rinnovabili? E arriveremo, per la prima volta in questa storia, a mettere nero su bianco in un documento multilaterale dell'Onu un patto per uscire dalla dipendenza dai combustibili fossili? Il fondo sui danni e le perdite, il più evidente strumento di giustizia climatica mai concepito, diventerà operativo? E, se sì, in quale forma? Vedremo.

L'esperienza mi insegna che una Cop è un campo di forze imprevedibili, è il suo limite ma anche la sua forza, la sua utilità. Tutto sembra già scritto, ma arrivi alle fine e sCopri che niente era davvero già scritto. Dobbiamo guardare alla Cop28 nel modo corretto: il mondo non si salva in due settimane di negoziato. Però quello stesso campo di forze ci aiuterà a leggere in modo più chiaro il futuro che abbiamo davanti. Affrontiamo Cop28 con il necessario scetticismo, con trepidazione, senza fatalismo.

La crisi climatica è innanzitutto una crisi politica, come dimostrano le recenti elezioni in Argentina e in Olanda, due paesi che, in modi diversi e da prospettive diverse, hanno deciso di affidarsi al negazionismo climatico anche per mancanza di alternative, per la debolezza del messaggio ambientalista. La Cop28 può essere l'occasione in cui, nelle condizioni più avverse, quel messaggio trova una nuova linfa.

Conterà tutto: le parole dette, quelle non dette, i dettagli, le virgole, i sospiri, raccontare una Cop è per metà analisi e per metà divinazione, come leggere i fondi del tè. Sarà divertente, sarà interessante, finché siamo vivi, siamo vivi. È anche una fiera, un circo, un baraccone, un dispositivo narrativo, un contenitore di storie. E allora, per una volta, partiamo da qui: dalle narrazioni. Questo è il numero 147 di Areale, buon sabato, cominciamo.

Dove ci porterà l’ottimismo?

«Sono una scienziata del clima. Non sto più urlando nel vuoto». Partiamo da questo editoriale per il New York Times di Kate Marvel, scienziata, autrice del Fifth National Climate Assessment (diciamo: il report IPCC su scala USA), membro del Project Drawdown, il più grande catalogo mondiale di soluzioni climatiche. Marvel scrive «non sto urlando più nel vuoto» per intendere: «Qualcuno finalmente ci sta ascoltando». Il suo editoriale è la variante ottimista della narrazione climatica, è un buon esemplare della Scuola del Bicchiere Mezzo Pieno. Non sono pazzi, gli allievi e i maestri di questa scuola.

La crisi climatica è davvero in atto e noi stiamo effettivamente reagendo. Sentiremo gli echi di questa conversazione anche intorno a Cop28, è la reazione contro i Profeti dello Sconforto. Sono elementi importanti, nel nostro contesto di malattia che si aggrava (il 17 novembre per la prima volta abbiamo superato, anche se su base giornaliera, quindi irrilevante ai fini climatici, la soglia emotiva di +2°C), ma di cura che si intensifica.

L'azione per il clima del 2023 non è la stessa del 2018: le cose stanno accadendo e dobbiamo tenerne conto, dobbiamo ricordarcelo, questo pensiero deve fare parte delle nostre valutazioni perché farà parte delle valutazioni anche di chi prenderà le decisioni alla Cop28. Nel bene e nel male, perché l'ottimismo è anche una materia infinitamente strumentalizzabile.

Il realismo ottimista di Marvel però non è ingenuità. È una forma parziale di realismo, non inutile né campata in aria né esaustiva. «Non stiamo più avvisando del pericolo in corso, stiamo mostrando la via verso la salvezza», scrive Marvel. «Mentre gli scienziati avvertivano il mondo del disastro, un piccolo esercito di altri scienziati, ingegneri, policymaker si stavano mettendo al lavoro. I nostri allarmi sono serviti a qualcosa». Il problema politico del clima è arrivato al secondo atto, di cui Cop28 sarà una scena madre. Atto primo: la scienza e l'attivismo fanno suonare la sveglia.

Qualcuno la sente, qualcuno non la sente, qualcuno la nega. Ma il suono di questa sveglia è arrivato chiaro come una detonazione. «Our warnings did their job». Atto secondo: stiamo organizzando la reazione, quella reazione - che chiamiamo con l'orrido vocabolo «transizione» - è in corso, politicamente va protetta. Ogni risposta politica oggi deve avere questo sCopo: essere cordone intorno alle ragioni della transizione, anche perché le vittorie di Milei in Argentina e Wilders in Olanda ci hanno mostrato quanto può essere seducente la proposta opposta: «lasciamo perdere, è tutto faticoso, inutile, opprimente». Il disfattismo e il catastrofismo incoraggiano questo pensiero, rafforzano l'ipotesi della motosega.

Scrive Marvel: «Oggi dobbiamo raggiungere quelli che non sono ancora stati toccati dai nostri avvertimenti. Non parlo dell'industria dei combustibili fossili, né mi interessa il piccolo, rumoroso gruppo dei negazionisti climatici». Parla di tutti gli altri, il variegato e contendibile mondo fuori dalla bolla, e dice: «Abbiamo bisogno di una storia migliore da raccontare». Ecco, questo è il punto fondamentale: che tu sia un politico, un attivista, uno scienziato, questa è la frase: «Abbiamo bisogno di una storia migliore da raccontare».

La storia che abbiamo raccontato finora, con la sua forza e i suoi limiti, non sta funzionando più. Le storie, che siano ideologie o Serie Tv, sono cicli vitali. Quando esauriscono il proprio tempo, chi le stava raccontando deve evolversi, cercare altro, cercare altrove. La Cop28 farà parte di questa nuova storia raccontare, quella che può essere antidoto alle motoseghe. Il tempo è ora e parte, tra tutti i posti, proprio da Dubai.

Ambientalismo difensivo

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«Non essendoci una democrazia e un legislatore mondiale, il destino è quello della frammentazione e, dunque, dell’impotenza». Questa è la premessa del ragionamento di Luca Picotta, avvocato e giornalista. Sono elaborazioni che sentiremo molto a Cop28, soprattutto se e quando le cose inizieranno a mettersi male a Dubai: il multilateralismo dell'Onu e delle Cop come spazio dell'impotenza, perché «i governanti devono rispondere, in primo luogo, ai propri cittadini.

Un contesto non interpretabile in modo schematico e uniforme, come troppo spesso fanno gli ambientalisti – ossia: una famiglia umana unica che abita il pianeta e che deve agire per salvarlo – bensì percorso da asimmetrie globali, rapporti di forza, approcci diversi per tempistiche, responsabilità, priorità e sensibilità». È vero? In parte è vero, certo. Trovare le soluzioni al problema climatico in questo format di cooperazione tra i paesi - libero, senza sanzioni, basato sul consenso - è sicuramente la via più lunga. Ma è anche l'unica possibile.
Picotti parla di ambientalismo difensivo. Non una transizione globale, ma tante transizioni locali in cui i paesi virtuosi, e attenti, scelgono di portare avanti le proprie policy climatiche senza provare a intervenire sulla scala internazionale. Secondo il paradigma dell'ambientalismo difensivo, si farà la transizione ecologica localmente perché in un paese più verde si vive meglio, e si farà la transizione energetica perché le rinnovabili costano meno e sono più sicure dal punto di vista geostrategico. Non ha senso spendersi altrove, oltre i confini dell'Italia, dell'Europa. Fare quello che possiamo, per conto nostro, e lasciar stare il resto.

Bello, ma inutile. Il punto è che la mitigazione climatica ha senso solo se fatta sulla scala giusta: quella globale. Provare a coordinare le nostre politiche con quelle di paesi diversissimi è una fatica immane, spesso cognitivamente sfiancante, oltre che politicamente dolorosa. Ma è l'unico modo per avere un impatto. Se l'obiettivo è questo, l'impatto grande, non c'è altro paradigma che tenga se non quello multilaterale e globale. Da solo, nessun paese si salva. Da solo, nessun paese si salva nemmeno se si riempie di rinnovabili, se costruisce lande di turbine eoliche, se pianta milioni di ettari di foreste. Sicuramente ne trae dei vantaggi, ma non si salva. L'atmosfera non ha barriere. Il clima non ha confini. Per affrontare un problema senza confini, dobbiamo educarci a pensare oltre i confini.

Lo scetticismo di Picotti si cura con una materia prima rara, soprattutto di questi tempi, che però i leader globali sono obbligati a provare a costruire. Quella materia prima rara è la fiducia. È quello che hanno provato a fare Biden e Xi Jinping incontrandosi a San Francisco e tenendo aperto il dialogo sulle emissioni di metano. È quello che ha provato a fare il commissario europeo al clima Hoekstra con la mossa a sorpresa di un passo avanti sulle risorse da destinare al fondo danni e perdite. Atti di costruzione di fiducia politica. A questo servono le Cop, questo dobbiamo aspettarci da questa Cop: far parlare i paesi e spingerli a lavorare insieme su un fronte comune. Anche un patto sul phase-out dei combustibili fossili sarebbe inutile senza la fiducia necessaria per applicarlo.

È questa la domanda a cui il 12 dicembre dovremo provare a rispondere: oggi, sul clima, i paesi si fidano di più o di meno di due settimane fa? Quando un paese (ciao, Italia, parlo di te) promette di non finanziare più progetti upstream con fondi pubblici e poi lo fa, intacca quella fiducia. Quando un paese (ciao, Usa, parlo di voi), esce dall'accordo di Parigi, intacca quella fiducia. Quando un paese (occidente e pool donatori Ocse, parlo di voi) promette di dare 100 miliardi di dollari al Green Climate Fund e per anni fallisce quella colletta, è la fiducia che si intacca. L'altra faccia del paradigma dell'ambientalismo difensivo è il capitalismo della sfiducia. Anche se noi passassimo il futuro a coltivare i nostri orti agrovoltaici nazionali, disinteressandoci della scala globale, le grandi aziende fossili non starebbero lì a reggere la pompa dell'acqua (vedi sotto, per altro).

La fiducia, per la decarbonizzazione, è molto più importante di qualsiasi tecnologia. Oggi non è facile fare questo discorso, con un genocidio trasmesso in diretta, due guerre di proporzioni impensabili in corso, e tutto il resto dei problemi che conosciamo. È faticoso, ma necessario. Sembriamo pazzi, ma ci sono giorni, o anni, in cui dobbiamo sembrare pazzi.

Petrolio, gas e transizione: che facciamo?

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«I produttori oil&gas oggi devono scegliere tra peggiorare la crisi climatica o diventare parte della soluzione, abbracciando il passaggio all'energia pulita», scrive l'Agenzia internazionale dell'energia nel suo nuovo report sul ruolo del settore dei combustibili fossili nella transizione energetica globale. Lo studio è uscito a pochi giorni dall'inizio di Cop28.

Di tutte le analisi pubblicate nel mese di novembre per dare il contesto e la portata della sfida climatica alla vigilia dell'evento di Dubai, questa della Iea è quella che va più dritto al cuore del problema: quale può, e deve, essere il ruolo dell'industria fossile in un vertice nel quale i suoi rappresentanti caleranno in massa e che si svolgerà in un paese produttore di fonti fossili e guidato dall'amministratore delegato dell'azienda petrolifera di stato? Sono le metriche del rapporto Iea a dare la misura del conflitto di interessi al centro di Cop28.

C'è un dato che più di ogni altro sintetizza qual è il ruolo reale che l'industria oil&gas sta scegliendo di avere, al di là delle promesse, delle parole e del greenwashing: 1 per cento. Se prendiamo la somma di tutti gli investimenti attuali nella corsa verso l'energia pulita, solo l'1 per cento viene dalle aziende del settore fossile, che evidentemente sta scegliendo di rimanere tale. C'è un grande cambiamento energetico in corso, 500 GW installati solo quest'anno, ma l’oil&gas, che dà lavoro a dodici milioni di persone nel mondo, non riesce a intercettarlo e ha scelto di non contribuirvi. Nel 2022 le aziende che estraggono, producono e commercializzano petrolio e gas hanno investito in tutto 20 miliardi di dollari in fonti pulite di energia: è solo il 2,5 per cento dei loro investimenti, quando secondo la Iea quella percentuale dovrebbe raggiungere il 50 per cento già entro il 2030 per metterci in condizione di rispettare i parametri dell'accordo di Parigi.

Le aziende oil&gas non vedono né il rischio climatico globale né quello del loro stesso declino. Il futuro delle fonti fossili è segnato già entro metà secolo, sia negli scenari più ottimistici di azzeramento le emissioni che nelle più realistiche promesse dei governi. Entrambi questi scenari vengono ignorati dal settore, che sta facendo la scommessa esattamente contraria: non credono a un'economia senza petrolio e gas e stanno facendo di tutto per dimostrarlo.

Secondo la Iea, prendendo in analisi le attuali policy energetiche delle economie mondiali, nel 2050 la domanda sarà calata del 45 per cento rispetto ai livelli attuali. Se dovessimo riuscire a seguire piani più virtuosi di decarbonizzazione, il calo della domanda di petrolio e gas somiglierebbe addirittura a un crollo, con un declino del 75 per cento. La Iea continua a bocciare anche le tecnologie di cattura e stoccaggio della CO2, la carta «esci di prigione» del settore per continuare con il business attuale. «Non possono essere usate per mantenere lo status quo. Al ritmo delle attuali emissioni del settore, queste tecnologie dovrebbero catturare e stoccare 32 miliardi di tonnellate di carbonio. Per riuscirci servirebbe più elettricità di quella che viene usata attualmente oggi nel mondo».

È in questa prospettiva che una quota di investimenti di solo l’1 per cento in energia pulita stona così tanto, soprattutto alla vigilia di un evento come Cop28, in cui uno degli obiettivi primari sarà triplicare le rinnovabili. La transizione oggi è una partita dalla quale le aziende energetiche fossili sono, per loro scelta industriale, completamente assenti, pur avendo una serie di tecnologie che sarebbero perfettamente compatibili, dall’idrogeno all’eolico in mare. Per essere compatibili con gli sforzi di tenere l'aumento delle temperature globali entro 1.5°C rispetto all'era pre-industriale, le loro emissioni dovrebbero calare del 60 per cento entro il 2030.

Un livello lontanissimo da una realtà in cui continuano a investire in combustibili fossili, al ritmo di 800 miliardi di dollari all'anno. Facendo una parafrasi brutale, la Iea suggerisce, nel tono felpato e tecnico dei suoi report, che le aziende oil and gas si stanno scavando la fossa da sole. Oggi valgono in tutto 6mila miliardi di dollari. Se l’accordo di Parigi venisse rispettato, perderebbero il 60 per cento della loro attuale valutazione di mercato. Per come stanno agendo, è nel loro interesse sabotarlo.

È in questa divergenza di prospettive che si svolgerà la Cop28. Il vertice di Dubai sarà un «momento della verità», per usare le parole del direttore esecutivo dell'Agenzia internazionale per l'energia Fatih Birol. «Devono prendere decisioni radicali sul loro posto futuro nel settore energetico globale». Insomma, come dire: o siete parte del problema o siete parte della soluzione. Il punto è che sembra abbiano già scelto.

Per questo sabato, siamo arrivati alla fine. Ricorda, ci sentiamo da Dubai ogni giorno per due settimane, per rimanere in contatto puoi seguirmi su Twitter/X, Instagram, Blue Sky, e possiamo parlarci sul canale Telegram. Per comunicare con la redazione, invece, lettori@editorialedomani.it. Prendiamo il respiro, buon fine settimana, dalla prossima si balla.

Ferdinando Cotugno

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