In concomitanza con la conferenza sul clima di Glasgow, sui social network sono aumentate esponenzialmente le pubblicità ingannevoli e la disinformazione sul cambiamento climatico. Gli autori dei contenuti, quasi 4mila in una settimana per una spesa complessiva di 6 milioni di sterline, sono alcune delle maggiori e più inquinanti multinazionali a livello globale.

I dati sono stati raccolti dal sistema di Eco-bot.Net, un progetto creato dall’artista e ricercatore britannico Bill Posters, dal musicista Robert Del Naja, del gruppo Massive Attack, e dall’attivista e imprenditore Dale Vince. Insieme a una serie di avvocati, giornalisti e ong hanno inaugurato durante la Cop26 un sistema che permette di riconoscere e segnalare tentativi di greenwashing aziendale su Facebook, Instagram e Twitter. 

Il sistema di intelligenza artificiale di Eco-bot.Net trova sulle piattaforme gli annunci, che poi vengono verificati da un gruppo di giornalisti indipendenti utilizzando rigorose definizioni accademiche di greenwashing.

I confini

In generale finiscono nella categoria greenwashing tutti quegli annunci che mettono in dubbio la necessità di un’azione urgente sul clima, come sostenuto dall’Ipcc e dagli accordi di Parigi sul clima.

In altri casi vengono travisati i dati scientifici, per omissione o selezione, al fine di erodere la fiducia nella scienza del clima. Talvolta basta mettere l’accento sulle e azioni che ciascuno può fare per aiutare il pianeta, come piantare alberi o riciclare, un modo per trasferire la responsabilità dalle aziende ai consumatori.

Messaggi di questo tenore sono stati pubblicati questa settimana dalla multinazionale delle telecomunicazioni Sky, responsabile del rilascio di circa 2 milioni di tonnellate di emissioni – dirette e indirette – solo nel 2020 e tra gli sponsor della Cop26. 

«Come artisti sentiamo la responsabilità di tentare di creare nuovi immaginari e idee che diano forma all’età della disinformazione in cui viviamo», ha detto Bill Posters.

«Attraverso questo progetto vogliamo quantificare il fenomeno in modo tale che le persone si rendano conto delle reali dimensioni del problema. I nostri dati infatti dimostrano come le campagne di greenwashing condotte online siano molto più grandi di quanto le stesse aziende ammettano». 

«All’inizio di questo progetto pensavamo che la negazione dei cambiamenti climatici fosse il grande inganno promosso su Internet, da bot e complottisti», ha detto il cofondatore Dale Vince, «ma continuando a scavare è diventato evidente che ci stavamo sbagliando. Alcune aziende avevano il preciso scopo di diffondere disinformazione per rallentare il cambiamento ecologico. Siamo passati dalla negazione dei cambiamenti al ritardarli il più possibile»

La complicità delle piattaforme

«Tutto ciò sta avvenendo grazie al tacito assenso delle piattaforme digitali», come dimostrano le quasi 300 milioni di impression raccolte da annunci che diffondono disinformazione sui cambiamenti climatici.

Le grandi compagnie tecnologiche hanno gli strumenti per bloccare questa disinformazione, ma decidono di non farlo. Hitachi Energy, ad esempio, altro sponsor della Cop26, e responsabile di circa 72 milioni di tonnellate di emissioni, ha abusato degli strumenti pubblicitari di Facebook diffondendo disinformazione nelle ultime tre settimane, prendendo di mira utenti in Scozia e Regno Unito durante la Cop26.

Il meccanismo è consolidato. Nel 2021 la multinazionale del petrolio ExxonMobil ha speso oltre 4 milioni di dollari in più di mille annunci che diffondevano disinformazione sui cambiamenti climatici, arrivando a generare oltre 100 milioni di impression su Facebook e Instagram.

Le pubblicità di Exxon sono state destinate a specifiche regioni e classi demografiche, e avevano il preciso scopo di influenzare il dibattito pubblico sulle legislazioni ambientali.

Complessivamente dal 1° gennaio 2020 al 21 ottobre scorso, solo 16 delle 100 maggiori aziende inquinanti a livello mondiale, tra cui Shell e Exxon, hanno pubblicato circa duemila annunci riconducibili a tattiche di greenwashing su Facebook e Instagram. Hanno speso 5 milioni e generato quasi 155 milioni di impressions, principalmente in America.

Obiettivi specifici 

Un aspetto notevole è che la disinformazione è concentrata in determinati periodi di tempo. È accaduto durante la Cop26, ma accade ogni volta che le istituzioni devono decidere su iniziative che possono avere un grande impatto sull’ecosistema che finanzia le energie fossili.

Come ha fatto l’American Petroleum Institute, ovvero la principale organizzazione professionale statunitense nel campo dell’ingegneria petrolchimica e chimica. Lo scorso 28 luglio, in concomitanza con la discussione del piano verde da 150miliardi di dollari da parte dell’amministrazione Biden, ha diffuso sulle principali piattaforme di social network annunci per quasi 100mila dollari sull’affidabilità e i vantaggi economici derivanti da combustibili fossili. 

In teoria, tutte le grandi aziende dovrebbe avere modelli di business e pratiche in linea con gli obiettivi dell’Accordo di Parigi sul clima. In pratica, quelle maggiormente coinvolte nel cambiamento climatico stanno spendendo enormi capitali in campagne pubblicitarie e di marketing per distrarre le persone dai danni che i loro prodotti causano.

E lo stanno facendo con l’assenso complice delle grandi compagnie tecnologiche, che potrebbero bloccare la maggior parte della disinformazione sul clima diffusa online, ma non lo fanno. Nota Bill Posters: «Se possono proteggere le persone dai danni causati dalla disinformazione sul Covid-19, perché non possono fare lo stesso per il clima?».

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