I primi ordini esecutivi di un presidente degli Stati Uniti hanno valore simbolico più che politico. Nel 2009 Obama dispose la chiusura di Guantanamo, per ricucire con la stagione di George W. Bush e della guerra al terrore. Tra le prime firme di Biden la più significativa è quella che riporta gli Stati Uniti negli accordi di Parigi, invertendo la rotta di Donald Trump. Guantanamo però era un simbolo e poteva essere usato come tale: la chiusura a Obama non riuscì, la firma passò comunque alla storia.

La lotta ai cambiamenti climatici invece è un programma gigantesco e definirà la presidenza di Biden. Ai simboli dovrà seguire la sostanza, e la prima parte del mandato sarà decisiva. «Biden userà i primi mesi per sbancare e spendere per la transizione energetica, fregandosene della collaborazione dei repubblicani, usando in modo creativo tutte le procedure che al Congresso gli permettono di mettere mano al budget», spiega Valentino Piana, economista e consulente di policy per diversi paesi durante le serrate trattative di Parigi nel 2015. Rientrare negli accordi di Parigi è un atto di politica internazionale, ma il grosso della partita è la transizione dell’economia americana: lavoro, energia, industria, trasporti.

Obiettivi ambiziosi

Anche su questo fronte, Biden ha dato segnali in forma di ordini esecutivi. Ha fermato la trivellazione nelle aree protette dell’Artico (uno degli ultimi lasciti del precedessore) e la costruzione del nuovo oleodotto dalle sabbie bituminose del Canada. Il Keystone XL è la battaglia che, già con (e a volte anche contro) Obama, ha plasmato l’ambientalismo contemporaneo negli Stati Uniti. Aver bloccato quell’oleodotto nella puntata pilota della sua amministrazione è un messaggio rivolto all’ala sinistra dei democratici. L’azione climatica di Biden ha una parte più facile e una più difficile, e quella «facile» è già difficilissima: la promessa di arrivare a energia elettrica interamente pulita entro il 2035.

Al momento, grazie alla spinta dell’era Obama e ai costi bassi di produzione, gli Stati Uniti sono al 38 per cento di questo obiettivo, col 19 per cento che viene dal nucleare e il 18 per cento dalle rinnovabili. Per passare da 38 a 100 in quindici anni, in un settore che si muove per evoluzioni e mai per rivoluzioni come l’energia, l’amministrazione dovrà correre. «Non basterà il finanziamento allo sviluppo delle green energy in sé, la vera sfida di Biden è rafforzare le linee elettriche federali, che sono un Far West istituzionalizzato, un patchwork di fili che per gli standard della Cina o dell’Europa è molto rudimentale», spiega Piana.

L’amministrazione non può fare tutto da sola, ha margini di azione limitati rispetto all’articolazione dei poteri e all’inerzia del mercato. L’energia risponde a logiche di lungo corso: durante gli anni di Bush la quota del petrolio iniziò a declinare, sotto Obama crebbe il gas, con Trump è crollato il carbone. A Biden sarà utile la «resistenza» nata dopo l’uscita dagli accordi di Parigi, fatta di stati, città e aziende. Il coordinamento tra amministrazione, Congresso, agenzie e stati sarà fondamentale: di ogni decisione sarà valutato il profilo climatico.

E veniamo alla parte difficile: un’economia carbon neutral entro il 2050 significa mettere mano anche ai settori più complessi da decarbonizzare. Produzione di acciaio e cemento, movimento merci, aviazione. È la parte più incerta della scommessa. Sarà fondamentale lo sviluppo su larga scala di tecnologie come idrogeno verde e cattura e sequestro di anidride carbonica dall'atmosfera. Non se ne potrà occupare subito, cosa che invece farà con le auto elettriche.

Nel programma c’è un potenziamento dell’infrastruttura: oggi ci sono 29mila stazioni pubbliche di ricarica, la promessa è di salire a 500mila in dieci anni. Una figura decisiva sarà Jennifer Granholm, scelta come segretario all’energia: da governatrice del Michigan gestì 1,35 miliardi di fondi federali per veicoli elettrici e batterie, secondo uno schema di sostegno a ricerca e produzione sul quale Biden dirotterà parte dei 2mila miliardi di dollari del suo piano.

Made in Usa

«Su questo gioca la mentalità quasi da sindacalista di Biden», commenta Piana, «Il suo orizzonte di ragionamento è sempre il lavoro. Merkel dice: produrremo un milione di auto elettriche, Biden dice: avremo un milione di posti di lavoro nel settore delle auto elettriche». Lo ha detto più volte, Biden: l’auto del futuro è «nuova, pulita e made in America». Il terzo concetto è importante quanto i primi due. «Quando Trump pensa al cambiamento climatico, l’unica parola che dice è truffa. Quando ci penso io, la parola che mi viene in mente è lavoro», aveva detto in campagna elettorale: è la sintesi della sua visione lavorista al climate change e su come deve intrecciarsi con il rilancio dell’economia post Covid.

La scommessa è tutta in questo snodo: non rilanciare l’economia nonostante la transizione energetica, ma rilanciare l’economia grazie alla transizione energetica, e alla creazione di 10 milioni di green job, che nel programma si premurava di definire «ben pagati», «da classe media» e «sparsi in tutti gli Stati Uniti, non solo sulla costa». È la sua ambizione di diventare il Franklin Delano Roosevelt del clima e insieme l’applicazione di un concetto importante e sfuggente: la giustizia climatica. Poveri e minoranze sono i più esposti alle conseguenze del cambiamento climatico, all’inquinamento, alla vita insalubre dentro i centri dell’economia basata su fonti fossili. Sono anche quelli che rischiano più da una transizione: la risposta, sulla carta e da verificare sul campo, è nelle opportunità di lavoro da classe media, finanziati con spesa, deficit e tasse.

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