L’energia solare può alimentare tutto il mondo? Quanta superficie serve e l’alternativa nucleare

L’energia solare è in costante ascesa: è uno dei metodi più economici e puliti per generare elettricità praticamente ovunque. Secondo Ember, nella prima metà del 2025 le energie rinnovabili sono diventate la principale fonte di elettricità al mondo, superando il carbone per la prima volta nella storia. Un traguardo epocale, trainato dalla crescita vertiginosa di solare ed eolico. Il carbone arretra, non ovunque, certo. Mentre Cina e India riducono l’uso di combustibili fossili grazie a investimenti massicci nel solare, Stati Uniti ed Europa tornano a fare affidamento su carbone e gas, complice una produzione rinnovabile più debole. Il boom del solare comunque è globale, anche e a volte soprattutto in quei paesi che si potrebbero ritenere ancora arretrati dal punto di vista tecnologico. Ne sono un esempio il Pakistan, il quale ha raddoppiato le importazioni di pannelli in un anno. L’Africa nella sua globalità, registra +60 per cento di crescita, con Nigeria e Sudafrica in testa. La Cina comunque, paese dalle capacità super-tecnologiche, domina il settore: nel solo agosto ha esportato tecnologie pulite per 20 miliardi di dollari, con veicoli elettrici e batterie che valgono il doppio dei pannelli solari. Secondo Ember, siamo a un «punto di svolta cruciale»: l’energia pulita tiene finalmente il passo con la domanda globale. Anche se recentemente, il segretario all’Energia degli Stati Uniti, Chris Wright, ha dichiarato che l’energia solare non potrebbe mai soddisfare l’intero fabbisogno energetico globale. Una affermazione che molti esperti considerano non solo errata, ma profondamente fuorviante. Tra carbone, petrolio e gas, i paesi non rispettano i piani sul clima. L’eccezione Colombia Elettricità vs energia totale Il 2 settembre, Wright ha scritto su X: «Anche se avvolgessimo l’intero pianeta con un pannello solare, produrremmo solo il 20 per cento dell’energia globale. Uno degli errori più grandi che i politici possano fare è equiparare l’elettricità all’energia!» Questo ragionamento trascura elementi fondamentali. Innanzitutto, l’elettricità è una forma essenziale e versatile di energia: in molti contesti pratici è l’energia “utilizzabile” per motori, illuminazione, industria, trasporti elettrici, pompe, ecc. Dunque, considerarla equivalente a “energia” in senso più ampio non è un errore banale. Il climatologo Gavin Schmidt, del Goddard Institute for Space Studies della Nasa, ha sottolineato che nel 2024 il contenuto energetico totale – prima della sua conversione in forme utilizzabili – di tutti i combustibili fossili è stimabile in circa 186 000 TWh. In confronto, la Terra riceve ogni anno una quantità di energia solare che supera quel valore di un fattore 6000. A questo si aggiunge che, in media, oltre il 60 per cento dell’energia contenuta nei combustibili fossili viene dissipata, durante il processo di conversione in forme utili (calore, perdite infrastrutturali, inefficienze). Considerando questa dispersione, l’energia effettivamente utile che otteniamo è molto più ridotta. In pratica, secondo Schmidt, l’energia solare che riceviamo annualmente è circa 18.000 volte superiore al nostro attuale consumo energetico finale “utile”. Africa, le città divorate da burroni: centinaia di migliaia di persone rischiano la casa Quanta superficie serve Certo, i pannelli solari non catturano l’intera radiazione solare e non è possibile installarli ovunque. Ma uno studio del 2021 di Carbon Tracker –intitolato “The Sky’s the Limit” – stima che basti occupare lo 0,3 per cento della superficie terrestre (terraferma) con pannelli solari per soddisfare l’attuale richiesta energetica globale. Questo dato è sorprendentemente modesto se paragonato all’attuale ingombro territoriale necessario per infrastrutture fossili. Secondo lo stesso studio, l’energia “tecnica” disponibile da solare ed eolico sarebbe oggi superiore di oltre 100 volte la domanda mondiale. In sostanza, i limiti principali non sono più tecnici, ma politici, normativi e strategici. A livello di land use (uso del suolo), un rapporto elaborato da Princeton (Net-Zero America) mostra che l’impronta territoriale delle rinnovabili è in molti casi inferiore a quella richiesta dalle infrastrutture fossili, proprio perché queste ultime richiedono miniera, estrazione, trasporti, raffinerie, rete alimentata e così via. Più recentemente, uno studio del 2024 evidenzia come in alcuni paesi si usi più terreno per golf club che per impianti solari o eolici, suggerendo che ci sia ampio margine per riconfigurare le priorità dell’uso del suolo in favore delle rinnovabili. Una modesta proposta per l’umanità: cerchiamo di essere più bonobo e meno scimpanzè E la fusione nucleare? Tra le critiche più ricorrenti a favore di alternative c’è la fusione nucleare: se mai diventasse praticabile, potrebbe essere un concorrente “migliore” della solare. Tuttavia, l’astrofisico Eric Chaisson (Università di Harvard) ha messo in guardia su un aspetto spesso trascurato: il calore residuo. Chaisson ha stimato che se l’umanità continuasse ad aumentare il consumo energetico anche moderatamente, nel giro di qualche secolo il solo calore dissipato durante l’uso dell’energia (cosa che avviene in ogni apparecchio, in ogni processo) potrebbe contribuire a un riscaldamento globale aggiuntivo di circa 3 °C, indipendentemente dalle emissioni di gas serra. La differenza fondamentale sta nel fatto che, con l’energia solare (eolica, marina, altre forme derivanti direttamente dal flusso solare), quel calore residuo non rappresenta un’aggiunta esterna al sistema terrestre: esso corrisponde all’energia solare che altrimenti verrebbe assorbita dalla superficie del pianeta. In altre parole, i pannelli catturano parte dell’energia che sarebbe già destinata a riscaldare il pianeta e la restituiscono sotto forma di elettricità — che verrà poi sfruttata o dispersa come calore, ma non “in più”. Con fonti non solari — come fissione nucleare, geotermia o combustibili fossili — il calore prodotto è “nuovo” rispetto al flusso solare: si somma al bilancio termico terrestre, contribuendo ulteriormente al riscaldamento. Va detto che Chaisson indica che questo effetto è rilevante su scala secolare e se il consumo energetico continua a crescere senza limiti. Già in alcune regioni densamente industrializzate, si stima che il solo calore residuo innalzi le temperature massime estive di 0,4 °C, e entro il 2100 potrebbe aggiungere fino a quasi 1 °C in aree ad alta densità industriale. La nuova corsa all’oro: i metalli che decideranno il futuro del pianeta Fuochi fatui, nuove spiegazioni Da secoli, nelle paludi e negli acquitrini, si raccontano storie di bagliori azzurrognoli che fluttuano sull’acqua nelle notti buie. Fenomeni noti come “fuochi fatui” o ignis fatuus, spesso associati al mondo del soprannaturale. Un gruppo di ricercatori guidato da Richard Zare della Stanford University ha osservato in laboratorio un fenomeno sorprendente: quando minuscole bolle di metano e aria risalgono nell’acqua e si scontrano, possono generare scintille elettriche spontanee. Gli studiosi hanno battezzato queste scariche “microfulmini”, e ritengono che abbiano energia sufficiente per incendiare il metano presente in ambiente naturale. «L’acqua di solito viene associata all’idea di spegnere il fuoco, non di generarlo. Eppure può accadere l’opposto», spiega Zare, sottolineando come la scoperta rovesci un luogo comune radicato. Il meccanismo osservato è semplice: durante la risalita, le bolle cambiano forma e accumulano cariche elettriche. Quando due di esse si toccano, la differenza di potenziale scatena una scintilla visibile come un lampo luminoso. Già Alessandro Volta, nel Settecento, aveva ipotizzato che i fuochi fatui potessero essere legati ai fulmini. Secondo Zare, l’intuizione non era del tutto sbagliata: non si tratta però di scariche provenienti dal cielo, ma di minuscoli “fulmini” generati direttamente nell’acqua. Per Detlef Lohse, fisico dell’Università di Twente, la ricerca non rappresenta ancora una prova definitiva, ma offre una spiegazione plausibile e stimolante. «È un risultato che apre nuove strade di indagine», commenta. Così, ciò che per secoli è stato interpretato come segno di presenze ultraterrene potrebbe rivelarsi un affascinante gioco di fisica e chimica tra bolle e scintille. Lezioni da Tonga Un’equipe internazionale di 40 ricercatori è rientrata da una spedizione durata 54 giorni intorno al vulcano sottomarino Hunga, nel Pacifico meridionale, con nuove chiavi di lettura su quella che è stata definita «l’eruzione del secolo». Quella che nel gennaio 2022 scatenò una colonna di cenere alta 58 chilometri, scosse le acque circostanti con tsunami e riversò ceneri su centinaia di chilometri di fondale e territori insulari. Il fenomeno distrusse i cavi di comunicazione sottomarini di Tonga, lasciando la nazione isolata per settimane. Gli scienziati hanno mappato il fondale, raccolto campioni di rocce, sedimenti, acqua e organismi viventi, e acquisito filmati inediti della caldera vulcanica. I risultati mostrano che il materiale eruttato si estende per più di 80 chilometri in tutte le direzioni e ha raggiunto anche vulcani vicini. Le colate di fango e cenere hanno plasmato un fondale instabile e mutevole, ostacolando la ricostituzione degli habitat marini. Inoltre, il versante del vulcano si è indebolito per via dei depositi stessi, rendendo le sue pendici soggette ad erosione e possibili cedimenti futuri che potrebbero provocare tsunami locali. Il buco dell’ozono si sta richiudendo, la Terra guarisce lentamente Mele Manu, geologo del servizio geologico tongano, avverte che non è solo il vulcano a rappresentare un pericolo: le scogliere sottomarine ripide e le frequenti scosse telluriche rendono la zona vulnerabile anche a frane sottomarine capaci di generare onde anomale. Secondo gli autori dello studio, mantenere sotto osservazione le strutture sottomarine e rafforzare le reti di monitoraggio sono passaggi essenziali per la sicurezza degli arcipelaghi pacifici. In sintesi, questa spedizione offre una fotografia inedita dello stato post-eruzione del vulcano Hunga e getta luce sulle conseguenze geologiche e ambientali di un processo che ha scosso non solo Tonga, ma l’intero Pacifico. Hunga è un vulcano esplosivo, la cui eruzione è avvenuta sulle profondità dell’oceano, ma simili vulcani li abbiamo in casa. Quanto sia stata devastante quell’eruzione deve essere una riflessione in più su quel che potrebbe accadere su vulcani come il Vesuvio o i campi Flegrei. Il lampo gamma che sfida la nostra comprensione dell’Universo