Secondo uno studio, il flaring (ossia la fiamma che si  produce bruciando il gas naturale in eccesso (principalmente metano) estratto insieme al petrolio da un pozzo petrolifero), non è la soluzione ideale all’eccesso di gas presente in un pozzo di petrolio, in quanto rilascia nell’atmosfera degli Stati Uniti cinque volte più gas serra di quanto si pensava in precedenza.

I rischi del flaring

 (AP Photo/Martha Irvine)

Il risultato è un impatto sul cambiamento climatico molto maggiore rispetto a quanto si ipotizzava finora, tant’è che per avere un’idea di ciò che significa è stato calcolato che le ricadute equivalgono a quelle prodotte da 2,9 milioni di automobili ogni anno. Se si pensa poi, che la produzione di petrolio degli Stati Uniti è solo una minima parte rispetto a quella totale, si capisce quanto il problema sia importante.

Tutto ciò è apparso sulla rivista scientifica Science. Il gruppo di lavoro, guidato da Genevieve Plant dell’università del Michigan, ha effettuato campionamenti aerei sui bacini petroliferi del Texas e sulla formazione Bakken che si trova a cavallo tra il Nord Dakota e il Montana dove vi è l’80 per cento del flaring statunitense.

Spiega Plant: «Abbiamo utilizzato un piccolo aeroplano dotato di sensori altamente sensibili per misurare le concentrazioni di metano e anidride carbonica presenti sottovento rispetto ai pozzi dove viene bruciato il gas. L'industria dei combustibili fossili e il governo degli Stati Uniti lavorano partendo dal presupposto che le fiamme bruciano il metano che fuoriesce con un’efficienza del 98 per cento. Ciò vorrebbe dire che solo il 2 per cento del metano che fuoriesce con il petrolio entra in atmosfera. In realtà, il nostro studio, dimostra che l'efficienza media del sistema non supera il 91,1 per cento. Ciò significa che il 9 per cento del metano che raggiunge la superficie entra in atmosfera».

Va ricordato che il metano ha una capacità di trattenere il calore terrestre di circa 80 volte superiore a quella dell’anidride carbonica nei primi 20 anni dal momento in cui entra in atmosfera, anche se l’anidride carbonica ha una maggiore capacità di resistere nell’aria con il trascorrere del tempo.

A conti fatti risulta che le emissioni di metano dal flaring negli Stati Uniti, che si collocano tra le prime cinque nazioni per tale attività, sono poco meno di cinque volte più elevate di quanto attualmente riportato ufficialmente. Andando più in profondità nell’analisi del lavoro si scopre che la maggior parte dei flaring funzionano effettivamente con un’efficienza del 98 per cento, ma un certo numero di flaring funziona con un’efficienza che non supera il 60 per cento e il 3-5 per cento dei flaring non è acceso e ciò fa sì che tutto il gas che sale in superficie si scarica nell'atmosfera. È indubbio che tale attività è fortemente dannosa anche perché, secondo la Banca Mondiale, la quantità di gas attualmente bruciata ogni anno – circa 144 miliardi di metri cubi – potrebbe alimentare l’intera Africa subsahariana.

Ma perché si preferisce disperdere quel gas anziché catturarlo ed utilizzarlo? Per vari motivi. A volte per sicurezza, in quanto funziona come valvola di scarico per le altissime pressioni presenti nel serbatoi petroliferi che potrebbero dare origine a pericolose esplosioni, altre volte per pure questioni economiche, quando, ad esempio, l’obiettivo è il petrolio e il gas associato non è considerato utile di essere introdotto sul mercato.

Cosa si dovrebbe fare per evitare tutto ciò? Ovviamente l’obiettivo primario sarebbe quello di chiudere i pozzi petroliferi, ma non potendolo fare ancora per diversi anni, la soluzione migliore sarebbe quella di portare alla massima efficienza i flaring di tutti i pozzi petroliferi così da bruciare il più possibile il metano che arriva in superficie.

Ma c’è una soluzione più drastica: si tratta di reiniettare il gas nel sottosuolo, pratica che viene normalmente fatta in Alaska con costi sopportabili dalle compagnie petrolifere. Evitare i flaring sarebbe anche molto utile per la salute della popolazione che vive entro cinque chilometri dai bacini petroliferi, in quanto da tempo si è notato un cronicizzarsi di alcune malattie polmonari.

Amasia, futuro supercontinente 

La Pangea (immagine Wikipedia)

La Terra è in continua trasformazione. Ogni giorno, ogni secondo le sue zolle si muovono e anche se a livello umano tutto ci appare immobile, a livello geologico le cose sono ben diverse, perché i grandi cambiamenti si misurano su scale molto lunghe. È successo nel passato, succede ora e succederà in futuro.

È così che ricercatori del New Curtin University si sono chiesti: «Come sarà il nostro pianeta tra 200-300 milioni di anni?». Si sono messi al lavoro e il risultato dice che vi sarà un unico continente che al momento è stato chiamato Amasia.

Il lavoro, pubblicato sulla National Science Review, ha utilizzato un supercomputer per simulare il modo con cui si forma un supercontinente e ha scoperto che poiché la Terra si sta via via raffreddando, il movimento delle placche in cui è suddivisa la crosta terrestre rallenta nel tempo, tuttavia, riuscirà a chiude l’oceano Pacifico per dare vita ad un unico continente. Vi sarà cioè una situazione simile al Pangea, il supercontinente che vi era circa 300 milioni di anni fa.

Spiega Chuan Huang, dell’Earth Dynamics Research Group di Curtin e della School of Earth and Planetary Sciences, autore principale del lavoro: «Negli ultimi 2 miliardi di anni, le placche della Terra si sono scontrate per formare un supercontinente ogni 600 milioni di anni, noto come “ciclo del supercontinente”. Facendo i debiti conti le attuali placche dovrebbero riunirsi per dare vita ad un nuovo unico continente proprio tra circa 200-300 milioni di anni. Al nuovo continente è stato dato il nome di Amasia perché si ipotizza che l’oceano Pacifico si chiuderà (al contrario dell’oceano Atlantico e Indiano che si apriranno) e le Americhe si scontreranno con l’Asia. Anche l’Australia nel suo movimento verso nord andrà a scontrarsi con l’Asia, così da avere Asia, America e Australia a formare un’unica massa terrestre. L’oceano Pacifico sarà scomparso del tutto e il nuovo continente sarà circondato da un unico immenso oceano». 

Attualmente l’oceano Pacifico è ciò che resta del super oceano chiamato Panthalassa, il quale si venne a formare quando, 700 milioni di anni fa, il precedente supercontinente iniziò a frantumarsi. Oggi è l’oceano più antico che abbiamo sulla Terra e ha iniziato a ridursi di dimensione dai tempi dei dinosauri, quando raggiunse la superficie massima. Attualmente si sta riducendo di alcuni centimetri all’anno. Spiega Sheng-Xiang Li, coautore del lavoro: «Quando si avrà Amasia la Terra sarà drasticamente diversa rispetto ad oggi. Il livello del mare sarà più basso e l’interno del grande continente risulterà molto arido con escursioni termiche da deserto».

La strana verità sui cinghiali

(AP Photo/Gregorio Borgia)

Difficile sentir parlare bene dei cinghiali. Vengono additati come devastatori di raccolti, di invasori di paesi e città, di distruttori di ambienti naturali…, ma è proprio così?

È vero che agiscono come scavatori della natura, ma sono dotati di una finezza ecologica che pochi riescono a capire. Attraverso lo “sradicamento” del terreno, ossia rigirandolo alla ricerca di tuberi, invertebrati e altre prelibatezze sotterranee, il cinghiale “ruota” e ripristina il bioma del suolo. Lo aera, lo espone a una nuova generazione di semi di piante e alberi e crea microhabitat complessi, tra cui stagni e radure di prati, gli elementi base per una nuova vita floreale.

Se si percorre una radura incontaminata, magari ricoperta di fiori, potrebbe sembrare sconvolgente – addirittura distruttivo – se, nel cuore della notte, un esercito di cinghiali vi arrivi causando il caos più totale. Terreno irregolare, bulbi dissotterrati, fiori spezzati non sembrano opera di un animale dotato di genio ecologico. Ma ecco il “miracolo”: i pettirossi e i merli arrivano per primi seguiti da un corteo di altre specie di uccelli, che seguono la scia del cinghiale perché ciò che essi vanno compiendo espongono alla luce del sole suoli vitali dove gli uccelli possono trovare vermi per il loro nutrimento. 

Certo, i primi giorni dopo il passaggio dei cinghiali il terreno sembra sconvolto, ma non lo sono anche i migliori giardini quando un contadino li ara? Come ogni processo ecologico, i vari passaggi richiedono tempo. Ed infatti, dopo pochi mesi dalla radicazione, il nuovo suolo verrà colonizzato. I primi segni possono apparire la primavera successiva. Arando il terreno, infatti, i cinghiali aprono la via a molti risultati che gli ecologisti potrebbero apprezzare solo se tornassero nello stesso sito un anno dopo. 

Piccole depressioni dove i cinghiali hanno sguazzato si possono trasformare in stagni vitali, ricchi terreni di riproduzione delle rane; le aree di terreno rimestate esplodono di piante selvatiche, che, a loro volta, sono fonte di polline per la foresta. Alla fine, il tutto dà inizio ad una nuova generazione di foreste. Ma il lavoro dei cinghiali non si ferma qui. Sono uno dei pochissimi mammiferi infatti, in grado di portare nelle viscere semi di grandi alberi – come il melo selvatico – per poi espellerli, intatti, completi di una sana dose di fertilizzante.  E allora vale la pena maledirli come viene fatto più e più volte? Certamente no, l’unica cosa è ridare ad essi l’habitat necessario alla loro sopravvivenza che via via abbiamo tolto nel tempo.

Pesci alieni nel Mediterraneo

David Salvatori/VWPICS

Una nuova ricerca coordinata dall’Istituto per le risorse biologiche e le biotecnologie marine del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Irbim) dimostra come la penetrazione di diverse specie ittiche dal mar Rosso al mar Mediterraneo attraverso il canale di Suez, possa in futuro estendersi all’oceano Atlantico a causa dei cambiamenti climatici.

«L’apertura del canale di Suez nel 1896 stabiliva un contatto tra il mar Rosso e il Mediterraneo, permettendo a centinaia di specie esotiche, tra cui più di cento pesci tropicali di penetrare e invadere il mare nostrum», spiega Ernesto Azzurro del Cnr-Irbim di Ancona, autore dello studio recentemente pubblicato su Frontiere in Ecologia e Ambiente. «Questo fenomeno, ha cambiato per sempre la storia del Mediterraneo, con rilevanti impatti ecologici e socioeconomici».

Lo studio supportato da un set di modelli di distribuzione e testato su dieci specie ittiche, illustra la possibilità di una migrazione di questo tipo che implicherebbe la riconnessione degli oceani Indo-Pacifico e Atlantico, separati da milioni di anni. Alcune specie del mar Rosso come il pesce palla maculato Lagocephalus sceleratus o la sardina di Golani Etrumeus golanii, sono state già segnalate in prossimità dello stretto di Gibilterra, alle porte dell’Atlantico.

«Si tratta di uno scenario di omogenizzazione biotica dalle conseguenze difficilmente prevedibili», conclude Manuela D’Amen dell’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale Roma (Ispra). L’invasione di specie che arrivano da altri mari all’interno del Mediterraneo infatti, può essere realmente catastrofica per gli habitat attuali e gli esempi sono già numerosi. 

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