Un gruppo di ricercatori internazionali ha dimostrato che ci sono anche mammiferi alieni invasivi che stanno espandendo i loro areali in Europa, minacciando la biodiversità nativa. Quando si parla di una specie di fauna o flora “aliena” si intendono organismi che si insediano in nuovi ambienti ecologici provenienti anche da molto lontano e spesso, trovando le condizioni ideali alla loro proliferazione, riescono a far soccombere quelle esistenti. 

La presenza di queste specie, spesso introdotte intenzionalmente come “animali da compagnia o da pelliccia” o accidentalmente, ha conseguenze negative non solo sull’ambiente, ma anche sulla potenziale trasmissione di malattie, incluse quelle che possono essere trasmesse dagli animali all’uomo.

Il gruppo di ricerca ha evidenziato che questo rischio esiste per l’81 per cento delle specie aliene invasive che sono state studiate. Il lavoro, coordinato da ricercatori del dipartimento di biologia e biotecnologie Charles Darwin della Sapienza e dell’Università di Vienna, in collaborazione con l’Università di Lisbona, ha evidenziato come, nonostante accordi internazionali, in Europa le segnalazioni di mammiferi alieni invasivi siano in forte aumento a scapito delle specie autoctone, ossia delle specie che da moltissimo tempo vivono in un certo habitat.

Il cuore del regolamento è la Union list, una lista di specie verso cui indirizzare misure di prevenzione, gestione, individuazione precoce ed eradicazione veloce. Nonostante l’interesse comunitario al problema, nessuno studio finora aveva affrontato specificamente l’ecologia dei mammiferi alieni invasivi della lista.

Secondo gli autori dello studio, le specie invasive più diffuse in Europa sono il cane procione (Nyctereutes procyonoides) originario della Siberia orientale, il topo muschiato (Ondatra zibethicus), il visone (Neovison vison) e il procione (Procyon lotor), queste ultime di origine nordamericana, che hanno invaso almeno 19 paesi e sono presenti da 90 anni nel territorio europeo.

L’ampia distribuzione di questi mammiferi può essere attribuita a diversi fattori, tra cui adattabilità, capacità di colonizzare ambienti diversi e grande capacità riproduttiva. Inoltre è stato visto come tutte e cinque le specie di Sciuridi (la famiglia di roditori che comprende, tra gli altri, marmotte, petauri e scoiattoli arboricoli) sono state introdotte in Europa almeno una volta come “animali da compagnia” o per svago e poi rilasciate illegalmente nei parchi urbani quando non si è più disposti a tenerle. Altre specie come la nutria (Myocastor coypus), il procione o il visone americano sono state, invece, ripetutamente introdotte per essere allevate come animali da pelliccia: le fughe dagli allevamenti, frequenti, non sempre accidentali e ripetute negli anni, hanno permesso che si stabilissero vere e proprie popolazioni in natura. 

Spiega Lisa Tedeschi della Sapienza: «Nonostante negli ultimi 50 anni si sia registrata una diminuzione nelle nuove introduzioni di mammiferi alieni, questi continuano a espandere i loro areali in Europa, aiutati dal rilascio illegale di individui in natura, minacciando gravemente la biodiversità nativa». Un altro aspetto importante riguarda il coinvolgimento delle specie studiate nei cicli di trasmissione di malattie: alcune, infettive, associate a mammiferi invasivi, come echinococcosi, toxoplasmosi e bailisascariasi, possono minacciare la salute umana.

Anche il patrimonio genetico delle specie autoctone può essere minacciato dai mammiferi invasivi, attraverso l’ibridazione (cioè l’incrocio tra specie animali diverse): nel Regno Unito, per esempio, il cervo sika (Cervus nippon) sta mettendo a rischio l’integrità genetica della sottospecie scozzese di cervo rosso (Cervus elaphus scoticus). «I mammiferi invasivi possono contribuire all’estinzione delle specie autoctone attraverso diversi meccanismi, tra cui competizione, predazione e trasmissione di malattie», dice Carlo Rondinini della Sapienza, coordinatore del lavoro insieme a Franz Essl dell’Università di Vienna. «È noto da tempo che lo scoiattolo rosso eurasiatico (Sciurus vulgaris), per esempio, in Italia si è estinto in più della metà del suo areale ed è stato sostituito dallo scoiattolo grigio orientale (Sciurus carolinensis), mentre il visone americano ha colonizzato l’area occupata dal visone europeo (Mustela lutreola) confinando questa specie nativa, in grave pericolo di estinzione, in poche aree della Spagna». Ora poiché è praticamente impossibile eradicare le specie aliene, si spera, affermano i ricercatori, che si riesca almeno a contenere il loro sviluppo e impedire che vadano a proliferare in altre aree.

Un oceano sempre più caldo

L’Oceano Artico è l’area marina più sensibile al riscaldamento globale. Ora una ricerca ha scoperto che iniziò a riscaldarsi rapidamente fin dall’inizio del secolo scorso, decenni prima di quanto finora documentato dalle moderne misurazioni sperimentali.

La notizia arriva da un gruppo di ricerca internazionale coordinato dall’Istituto di scienze polari (Cnr-Isp) e di scienze marine (Cnr Ismar) del Consiglio nazionale delle ricerche di Bologna con la collaborazione dell’Università di Cambridge. La causa è un fenomeno da tempo noto come “atlantificazione”, ossia una progressiva intrusione di acque provenienti dall’Oceano Atlantico, più calde e più salate nel mondo artico, le cui acque sono più fredde e dolci. Il lavoro, pubblicato sulla rivista Science Advances, individua per la prima volta la datazione storica dell’inizio di questo fenomeno.

Spiega Tommaso Tesi, primo autore della ricerca: «L’atlantificazione artica sta progressivamente accelerando, tuttavia prima del nostro studio non avevamo una visione storica di questo processo, in quanto le osservazioni da satellite sono limitate all’incirca agli ultimi 40 anni. Questo cambiamento delle acque ha preceduto invece il riscaldamento documentato da satelliti e siti osservativi».

Per il loro studio i ricercatori hanno preso in esame una regione all’entrata dell’Oceano Artico, lungo la parte orientale dello stretto di Fram, tra la Groenlandia e le Svalbard. «Abbiamo analizzato una serie di sedimenti marini, i quali, studiandoli in successione, si comportano come una “macchina del tempo”. Abbiamo cercato i segni diagnostici dell’atlantificazione, quali il cambiamento di temperatura e salinità», prosegue Tesi. «Leggendo le firme chimiche trovate nei microrganismi marini abbiamo constatato come dall’inizio del XX secolo, la temperatura dell’oceano è aumentata di circa 2 gradi Celsius, mentre il ghiaccio marino si è ritirato e la salinità cresciuta”. Andando ancor più indietro nel tempo, fino a 800 anni fa, si è scoperto che la temperatura e la salinità sono rimaste piuttosto costanti mentre, una volta arrivati all’inizio del XX secolo, si ha un marcato cambiamento di questi parametri.

«Tutti gli oceani del mondo si stanno riscaldando a causa dei cambiamenti climatici, ma l’Oceano artico, il più piccolo tra gli oceani, si sta riscaldando più velocemente di tutti», afferma Francesco Muschitiello, coautore dell’articolo.

Un gioiello antico

Non sappiamo quando lo indossavano, non sappiamo neppure se era prerogativa delle donne oppure se era indossato anche dagli uomini e non sappiamo neppure se aveva qualche significato simbolico. Quel che sappiamo è che un ciondolo d’avorio risalente a 41.500 anni fa è venuto alla luce all’interno di una grotta in Polonia e al momento risulta essere il più antico ornamento decorato finora emerso in Eurasia. La scoperta – riportata su Scientific Reports – nasce da uno studio multidisciplinare di un gruppo di ricerca guidato da studiosi dell’Università di Bologna insieme a studiosi dell’Istituto Max Planck per l’Evoluzione Umana (Germania), dall’Università di Wrocław (Polonia) e dall’Istituto di Sistematica ed Evoluzione degli Animali dell’Accademia polacca delle scienze.

Il gioiello è un ciondolo d’avorio decorato da 50 puntini che disegnano una curva circolare irregolare. La sua scoperta retrodata di 2.000 anni lo sviluppo di questo tipo di decorazione da parte dei primi Homo sapiens arrivati in Europa. «Determinare l’età esatta di questo gioiello era fondamentale per la sua attribuzione culturale e siamo entusiasti del risultato raggiunto”, spiega Sahra Talamo, coordinatrice dello studio e direttrice del laboratorio di radiocarbonio Bravho presso il pipartimento di Chimica “Giacomo Ciamician” dell’Università di Bologna. «Questo studio dimostra che utilizzando i più recenti progressi del metodo del radiocarbonio è possibile ridurre al minimo la quantità di materiale da campionare per ottenere ugualmente date molto precise e con un intervallo di errore molto piccolo». Assieme alla datazione al radiocarbonio, il ciondolo è stato analizzato anche con metodologie digitali, a partire da scansioni micro-tomografiche dei reperti.

Sin dagli inizi della loro dispersione in Europa centrale e occidentale, circa 42.000 anni fa, i gruppi di Homo sapiens iniziarono ad usare l’avorio delle zanne dei mammut per la produzione di ciondoli e figurine e a volte a decorarli con motivi geometrici. In particolare, oltre a linee, croci e asterischi, il nuovo tipo di decorazione – l’allineamento di puntini – compare in alcuni ornamenti ritrovati nella Francia sud-occidentale e in alcune figurine del Giura Svevo, in Germania. La maggior parte di questi ornamenti furono però scoperti durante scavi archeologici realizzati nei primi del Novecento e quindi le loro attribuzioni cronologiche rimanevano imprecise. L’analisi e la datazione di questo gioiello decorato, permette ora di ampliare le nostre conoscenze sui tempi di comparsa di questi oggetti in Eurasia.

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