Su queste pagine ho sostenuto che il negazionismo climatico si può paragonare al negazionismo dell’Olocausto e, per questo, dovrebbe essere reso reato. Come era prevedibile, la proposta ha suscitato reazioni, fra le altre un articolo di Cataldo Intrieri su questo giornale. 

Un reato relativo a opinioni irrispettose, non a disastri

La mia proposta non prevede di aggiungere al diritto dell’ambiente un ennesimo reato a prevenzione di disastri o danni ambientali. Il reato che ho in mente non mira a punire chi provoca il disastro, bensì chi nega pubblicamente certi fatti, cioè il nesso causale statistico fra emissioni di gas serra provocate da attività umane, cambiamento climatico ed effetti pericolosi di quest’ultimo. In questo senso, non mi pare che Giovanni Orsina, che ne ha scritto su La Stampa, possa essere considerato un negazionista. Orsina non nega i dati della scienza, semmai considera le difficoltà di comunicarli con efficacia.

La ragione per istituire il reato è che negare questi fatti (soprattutto quando si ha un ruolo pubblico) offende le vittime del cambiamento climatico e rallenta la decisione di realizzare migliori politiche. Quando ho illustrato la mia tesi non ho indicato quali sarebbero, secondo me. Non ho mai manifestato sostegno per la decrescita felice, né lì né altrove. Molte politiche di contenimento climatico passano per nuovi mercati basati su strumenti di finanza ed energie rinnovabili. Un mercato di obbligazioni a lungo termine a sostegno di investimenti sulle rinnovabili, come quello proposto da John Broome e Duncan Foley, non è decrescita, in nessun senso.

Il consenso nella scienza del cambiamento climatico

Si può contestare l’analogia tra fatti storici relativi all’Olocausto e conclusioni della scienza, dicendo che la scienza va sempre criticata perché dev’essere falsificabile (come voleva Popper) e i paradigmi scientifici cambiano (come diceva Kuhn). Ma secondo le ultime rassegne delle pubblicazioni scientifiche su questo tema (quella di John Cook e altri autori del 2013, quella di Mark Lynas e altri autori del 2021), la percentuale di articoli scientifici a favore delle cause antropogeniche del cambiamento climatico oscilla fra il 97 e il 99%. Tra il 2012 e il 2020, in un database di più di 88000 pubblicazioni ci sono solo 28 articoli scettici. Anche il più sfegatato popperiano converrebbe che la scienza del clima non è stata ancora falsificata, non ci sono molte probabilità che lo sia e ha subito un numero enorme di tentativi di falsificazione. Anche il più ardito dei kuhniani si stupirebbe della persistenza di questo paradigma. Il compianto Bruno Latour, mai tenero con gli scienziati, ha passato gli ultimi anni della sua vita ad argomentare contro i negazionisti.

Non si può sostenere che – poiché il clima è cambiato nel passato – non è detto che le mutazioni nuove siano causate dagli esseri umani, per due ragioni, una scientifica e una logica. Per la differenza di scala fra i cambiamenti climatici del passato e del presente, in termini di estensione e velocità, e perché è una fallacia pensare che se qualcosa è accaduto nel passato e accade nel presente, le cause debbano essere le medesime.

Scommetto che la percentuale di storici revisionisti sull’Olocausto, o scettici, sia superiore a una quota fra il 3 e l’1%. Ci sono più storici revisionisti che scienziati scettici, dunque. Eppure l’idea di punire i negazionisti dell’Olocausto è stata discussa, all’estero e nel nostro paese. Per questo paragonavo i due negazionismi, come fa Jonathan Safran Foer nel suo Possiamo salvare il mondo prima di cena (Guanda, 2019), raccontando l’incredulità che accolse la notizia dei primi campi di concentramento in Germania.

La responsabilità delle opinioni

Non ho mai negato che la libertà d’opinione vada protetta. Ma penso che essa non si possa spingere a negare fatti evidenti, quando la negazione abbia conseguenze pericolose. Questa è un’idea di J.S. Mill, secondo il quale diffondere un volantino contro i mercanti di grano a una folla inferocita durante una carestia dev’essere impedito. La società aperta si tutela anche spingendo le persone ad assumersi la responsabilità delle conseguenze pericolose dei propri atti linguistici. La libertà di pensiero non è libertà di dire tutto quello che si vuole, incuranti delle conseguenze. Altrimenti, non puniremmo la diffamazione e l’insulto.

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