Esiste un’idea, tanto diffusa quanto ingannevole, secondo cui il nostro paese sarebbe momentaneamente al riparo dalle ricadute della crisi climatica. È un eccezionalismo che si ritrova un po’ in tutte le culture occidentalizzate (quelle indigene sono più abituate a rapportarsi a un ambiente instabile), ed è legato a una distorsione cognitiva che ci fa credere che catastrofi e sciagure colpiranno sempre qualcun altro, in qualche altro luogo, prima di ricadere su di noi.

Ma è appunto una pia illusione. La conformazione idrogeologica della penisola italiana e la sua posizione nel Mediterraneo, unite a un territorio pesantemente antropizzato, ci rendono già oggi particolarmente vulnerabili al cambiamento climatico.

Se si vanno a vedere i dati forniti dal Cnr, emerge come negli ultimi 100 anni nel nostro paese si sia registrato un aumento di temperatura pari a 2°C, quasi il doppio rispetto al valore globale. Nello stesso periodo le precipitazioni sono diminuite in media del 12 per cento, abbiamo perso il 60 per cento dei ghiacciai e registrato un’impennata nell’intensità degli incendi boschivi.

Per quanto ci risulti difficile accettarlo, insomma, la crisi climatica ha già cambiato questo paese sotto molteplici aspetti. A partire dal cibo che produciamo.

In Sicilia arriva il caffè, in Sardegna sparisce il miele

AP Photo/Luca Bruno

A inizio ottobre, una famiglia di torrefattori siciliani ha annunciato di aver ottenuto il primo caffè interamente coltivato su suolo italiano: 350 kg, un raccolto incredibile per una latitudine così lontana dall’equatore. Ma non si tratta di un caso isolato: sono anni che in Sicilia, come in altre regioni meridionali, si è cominciato a coltivare specie tropicali, tra cui il mango, l’avocado e la banana.

Com’è intuibile, il riscaldamento globale sta guidando uno spostamento delle coltivazioni verso nord, il che non significa soltanto che nuove varietà diventano coltivabili, ma anche che altre smettono di esserlo. Basta vedere le difficoltà che stanno attraversando molti produttori vinicoli, che per colpa dell’aumento delle temperature sono costretti ad anticipare la vendemmia, ritrovandosi con un prodotto con elevata quantità di alcol e zuccheri, ma bassa acidità. Di qui a fine secolo più della metà delle terre oggi dedicate alla produzione di vino rischiano di non essere più sfruttabili.

In generale, il 2021 è stato un anno nero per l’agricoltura, anche per via di un aumento del 65 per cento degli eventi estremi, tra cui nubifragi, gelate e ondate di calore. La produzione del miele ha subito un crollo del 95 per cento, quella dell’olio nelle regioni del centro-nord è calata dell’80 per cento, pere e pesche rispettivamente il 69 per cento e il 48 per cento. Tra tutti i paesi dell’Unione Europea, il nostro è quello con la maggiore percentuale di terreni agricoli vulnerabili, e se il trend non cambia il rischio è di accumulare perdite per 120 miliardi di euro di qui al 2100, il 72 percento del valore totale.

E quello agro-alimentare non è l’unico settore che rischia di essere messo in ginocchio dalla crisi climatica. Anche il turismo, oggi responsabile del 6 per cento degli occupati sul nostro territorio, se la sta vedendo brutta.

Rischiamo di perdere metà delle nostre spiagge

Ferdinando Nicola Baldieri/La Presse

Nel mese di ottobre, quando le temperature calano e le spiagge si svuotano definitivamente, negli stabilimenti balneari che punteggiano il litorale italico si vedono automezzi rovesciare quintali di sabbia e ghiaia sulla battigia. Il ripascimento delle spiagge non è una pratica nuova, viene adottata almeno dagli anni ’50 per contrastare l’erosione costiera, ma la crisi climatica la sta rendendo sempre più necessaria, oltre che costosa.

Il Rapporto Spiagge pubblicato quest’anno da Legambiente mostra come dal 1970 ad oggi i chilometri di costa sabbiosa soggetti a erosione siano triplicati, arrivando al 46 per cento del totale e toccando quote del 60 per cento in regioni più vulnerabili come Abruzzo, Sicilia e Calabria. Questo significa che nel giro di cinquant’anni abbiamo perso almeno 40 milioni di chilometri quadrati di spiagge.

Colpa dell’intensificarsi delle mareggiate, delle trombe d’aria e di altri fenomeni climatici estremi. Tutti parametri destinati a incrementare con l’aumento delle temperature globali, e che diventeranno ulteriormente problematici considerando un innalzamento delle acque previsto di almeno 30 centimetri. A peggiorare la situazione c’è il tasso di artificializzazione costiera, con barriere rigide erette per fronteggiare l’insistenza delle maree che in realtà hanno spesso effetti controproducenti.  

Il problema riguarda anche la sicurezza dei territori e dei centri abitati affacciati sulla costa, che sono sempre più vulnerabili alle inondazioni. Già oggi, città come Taranto, Oristano, Ravenna e Cagliari sono esposte a un rischio nettamente maggiore rispetto a solo dieci anni fa. Per arginare questo problema lo stato già spende in ripascimenti circa 100 milioni di euro ogni anno (più di quanto incassa dalle concessioni balneari), ma anche questa cifra è senz’altro destinata a crescere.

Milano, Genova e Napoli sono diventate trappole di calore

LaPresse - Andrea Panegrossi

A proposito di città: il nostro paese ha un tasso d’urbanizzazione tra i primi nel mondo. Se in media la quantità di persone nel globo che abitano in città si assesta intorno al 55%, in Italia siamo al 70%. E il trend è in crescita: di qui al 2050 arriveremo all’80%, un bel problema considerando che già oggi le città sono afflitte da problemi di consumo energetico, inquinamento e accumulo di calore.

Secondo una ricerca European Data Journalism Network, dagli anni ’60 a oggi centri come Milano, Roma, Genova e Napoli hanno registrato un aumento delle temperature medie di oltre 3°C. È un prodotto del riscaldamento globale, certo, ma anche di un fenomeno noto come «isola di calore»: l’estensione delle superfici asfaltate e la diminuzione delle aree verdi, insieme all’incremento della densità abitativa, delle automobili e dei condizionatori, fa sì che gli ambienti urbani accumulino calore e siano sempre meno in grado di disperderlo, toccando temperature anche di 6°C superiori rispetto alle campagne circostanti.

Le criticità non si fermano al caldo. Un rapporto European Public Health Alliance ha rivelato che le città del nord Italia sono tra le più inquinate d’Europa, oltre che quelle in cui l’inquinamento atmosferico comporta maggiori costi sul sistema sanitario. A Milano, per dire, l’impatto dello smog costa in media 2.800 euro per cittadino, contro una media europea di 1.095 euro.

Primi in biodiversità, ma non per molto

LaPresse/Mario

Questo pronunciato sviluppo urbano, naturalmente, ha anche altri costi. L’Italia è il paese con il più alto tasso di biodiversità, tanto che possiamo vantare quasi la metà delle specie vegetali presenti nel continente e un terzo di quelle animali. Ogni settimana però si registra un consumo di 50mila metri quadrati di suolo, il che contribuisce a erodere questo valore dello 0,5 per cento l’anno.

Tra le specie più a rischio ci sono diversi uccelli nidificanti (come il cormorano atlantico, il falco pescatore e la bigia padovana) e alcuni animali marini (tra cui delfini, squali e tartarughe). Ma oltre al consumo di suolo e alla frammentazione degli habitat, ad aggravare questo declino interviene, ancora una volta, il cambiamento climatico.

Mentre in Sicilia si coltiva caffè, infatti, nelle acque italiane cominciano a spuntare specie di pesci tropicali che un tempo potevano essere pescati solo nell’oceano Indiano o nel mar Rosso, come il pesce flautato, il pesce falce e i granchi blu. Ogni anno in media quattro specie alloctone arrivano nei nostri mari e vi si stabilizzano. Nel frattempo il riscaldamento delle acque sta spingendo le specie autoctone sempre più a nord.

Una cartolina che sbiadisce alla svelta

Abbiamo visto solo alcuni tasselli di questo mosaico, ma sono sufficienti a restituire un’immagine chiara: il nostro paesaggio, così iconico e invidiato, sta rapidamente perdendo colore. Ma siccome, come si diceva, disponiamo di uno sguardo cognitivamente miope, finiamo per convincerci di vivere nello stesso paese di sempre. La sfida ora è intervenire a livello di emissioni e attività invasive in modo da rallentare questa degradazione; e magari, nel frattempo, trovare un paio di lenti adatte a correggere la nostra miopia.

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