È risaputo che la maggior quantità di plastica che l’uomo produce finisce nei mari, cosa accade però, al loro interno è ancora un’incognita. Per prima cosa è necessario capire dove finisce la plastica che arriva in mare e quanta ce n’è realmente. Un nuovo studio, pubblicato su Environmental Science and Technology, che documenta l’accumulo di particelle di microplastica sul fondo del mar Mediterraneo, ha mostrato sorprendentemente che le concentrazioni di questo materiale sono triplicate dal 2000.

Cronologia dell’inquinamento

Foto AP

Negli ultimi anni vari studi hanno seguito il percorso delle microplastiche: dalle valanghe sottomarine che le spingono sui fondali, alla scoperta di trincee sul fondo dei mari che possono agire come trappole per la plastica. Nel 2020, un gruppo di ricerca che studia l’inquinamento nel mar Mediterraneo aveva identificato un punto caldo con la più alta concentrazione di microplastiche mai trovata, posto tra la Corsica e la Sardegna.

Ora un altro gruppo di ricercatori dell’università autonoma spagnola di Barcellona e dell’università danese di Aalborg ha realizzato ulteriori ricerche sulle microplastiche del mar Mediterraneo, con uno sguardo più ampio. Il team ha raccolto campioni di sedimenti dal mar Mediterraneo occidentale su varie aree e ha utilizzato una tecnologia di imaging avanzata per studiare particelle fino a 11 micrometri di diametro. Ciò ha permesso agli scienziati di inserire dettagli importanti sull’accumulo di microplastiche nei sedimenti marini e di studiare cosa succede loro dopo essere state incorporate nel materiale presente sul fondo. Sorprendentemente i ricercatori hanno scoperto che le microplastiche, una volta raggiunto il fondale marino, vi rimangono conservate per tempi lunghissimi e al momento indefiniti. 

Gli scienziati affermano che la mancanza di alterazione delle microplastiche può essere dovuta all’assenza di ossigeno o di luce o di entrambi. «Il processo di frammentazione della plastica avviene principalmente nei sedimenti della spiaggia, sulla superficie del mare o nella colonna d’acqua», ha detto un’autrice dello studio, Patrizia Ziveri. «Una volta depositatasi sul fondo, il degrado è minimo, quindi la plastica degli anni Sessanta è ancora presente sul fondo del mare, lasciando una firma ben definita dell’inquinamento umano».

Gli scienziati sono stati in grado di ricostruire una cronologia dell’inquinamento da plastica nei fondali marini e affermano che la quantità di microplastiche è triplicata dal 2000 ad oggi e che la natura della plastica che si accumula nel Mediterraneo rispecchia la produzione e l’uso globale di quel che è avvenuto tra il 1965 e il nuovo millennio. Sottolinea Michael Grelaud, autore dello studio: «Questa ricerca ci ha permesso di vedere come, dagli anni Ottanta, ma soprattutto negli ultimi due decenni, sia aumentato l’accumulo di particelle di polietilene e polipropilene da imballaggi, bottiglie e pellicole alimentari, così come il poliestere da fibre sintetiche presenti nei tessuti per abbigliamento».

Brutte notizie per gli orsi polari

(Sean Kilpatrick/The Canadian Press via AP, File)

Gli orsi polari nella baia di Hudson occidentale in Canada, sul bordo meridionale dell’Artico, continuano a morire in gran numero e le femmine e i cuccioli stanno attraversando un periodo particolarmente difficile. È questo il risultato di una nuova indagine del governo canadese sul carnivoro terrestre. I ricercatori hanno concentrato le loro ricerche nella baia di Hudson occidentale, in prossimità di Churchill, la città chiamata “la capitale mondiale dell’orso polare”.

Con ripetuti sorvoli aerei hanno stimato la presenza di 618 orsi, rispetto agli 842 del 2016, quando erano stati esaminati l’ultima volta. «Il declino effettivo è molto più grande di quanto mi sarei aspettato», ha detto Andrew Derocher, professore di biologia all’università di Alberta, che non è stato coinvolto nello studio. Dagli anni Ottanta, il numero di orsi nella regione è diminuito di quasi il 50 per cento. Ovviamente la causa principale è da ricercare nella riduzione della banchisa glaciale, essenziale per la loro sopravvivenza. Gli orsi polari infatti, fanno affidamento sul ghiaccio marino artico, ossia l’acqua marina che ogni inverno ghiaccia. Esso infatti, viene usato come base per la caccia, in quanto si appollaiano vicino a buchi in attesa che le foche escano per respirare. E le foche sono il loro cibo preferito. 

Ma ora il ghiaccio fonde sempre prima in primavera e impiega più tempo a congelarsi in autunno. Ciò ha lasciato molti orsi polari che vivono nell’Artico con meno ghiaccio su cui vivere, cacciare e riprodursi. I ricercatori hanno affermato che la concentrazione di decessi nei giovani orsi e nelle femmine nella baia di Hudson occidentale è allarmante. «Questo è ciò che abbiamo sempre previsto che sarebbe avvenuto in seguito ai cambiamenti nell’ambiente», ha affermato Stephen Atkinson, l’autore principale che ha studiato gli orsi polari per più di 30 anni. I giovani orsi hanno bisogno di energia per crescere e non possono sopravvivere per lunghi periodi senza cibo a sufficienza, così come le femmine le quali consumano tanta energia per allattare e allevare la prole. «La capacità di riproduzione degli orsi polari nella baia di Hudson occidentale diminuirà sempre più», ha affermato Atkinson, «perché semplicemente ci sono meno giovani orsi che sopravvivono e diventano adulti».

Inquinamento luminoso e telescopi

Da sempre gli astronomi hanno cercato luoghi privi di luci prodotte dall’uomo per individuare le stelle e gli oggetti più deboli dell’universo che a volte sono anche i più lontani. Ma nonostante una continua ricerca di luoghi sempre più distanti dalle città i luoghi dove l’inquinamento luminoso è tale da permettere importanti ricerche astronomiche si fanno sempre più rari e il problema sta interessando anche e sempre più, le aree di molti grandi osservatori astronomici.

Un gruppo di lavoro costituito da ricercatori italiani, spagnoli e cileni (in Cile, nel deserto di Atacama, vi sono i più grandi telescopi terrestri) ha voluto analizzare e confrontare i valori di inquinamento luminoso proprio nelle vicinanze dei principali telescopi di tutto il mondo. A capo di questa ricerca vi era Fabio Falchi dell’Istituto di Scienza e tecnologia dell’inquinamento luminoso di Thiene, in provincia di Vicenza, che è arrivata alla triste conclusione che la luce emessa dall’uomo sta inquinando il cielo sopra la maggior parte degli osservatori. E si vuole che i grandi telescopi  facciano il lavoro per cui sono stati costruiti è urgente prendere misure per diminuire la contaminazione dei dati astronomici da parte della luce artificiale.

La ricerca è stata pubblicata su Monthly Notices of the Royal Astronomical Society. Stando ai dati raccolti in prossimità di una cinquantina di osservatori in tutto il mondo, solo sette dei siti che ospitano (o ospiteranno) le 28 maggiori attività astronomiche presenti e future – ovvero quelle che presentano  telescopi con un diametro diametro pari o superiore a tre metri – hanno a disposizione un cielo praticamente incontaminato proprio sopra la loro testa, ossia allo zenit. Sopra di essi si è rilevato un livello di inquinamento luminoso inferiore all’uno per cento rispetto alla luminosità naturale del cielo.

Il luogo migliore è risultato Paranal, in Cile, dove lavora il Very Large Telescope dell’European Southen Observatory (Eso). Subito dopo privilegia di cieli quasi incontaminati la vicina Armazones, dove lo stesso Eso sta costruendo il più grande telescopio al mondo, l’Extremely Large Telescope, il cui specchio principale avrà un diametro di 30 metri. Sempre rimanendo in Cile, anche l’area dell’University of Tokyo Atacama Observatory (Tao) può fregiarsi di un cielo molto buio, il quale viene intralciato nelle sue osservazioni solo da una fonte di luce che, per ironia della sorte, proviene da un altro osservatorio astronomico, l’Atacama Large Millimeter Array (Alma), che però scruta il cielo a lunghezze d’onda molto più lunghe, ossia nelle onde radio, e non è dunque interessato dall’inquinamento luminoso.

Anche il South African Astronomical Observatory e l’Australian Astronomical Observatory, costruiti sulla cima di Mauna Kea, nell’isola di Hawaii, sono disturbati solo dalla fioca luce rossastra del vicino vulcano Kilauea, e dalla Sierra di San Pedro Martir, in Messico. I restanti 21 siti, che rappresentano i tre quarti di tutti i principali osservatori astronomici del pianeta, lavorano con un inquinamento luminoso al di sopra della soglia prevista.

Gli alieni? Li cattura Ligo

Science Photo Library

Se non fosse che la ricerca è stata pubblicato su arXiv, un sistema di archiviazione di ricerche scientifiche, lo studio potrebbe essere pura fantascienza. Secondo un gruppo di ricercatori internazionale (tra cui l’italiano Gianni Martire), infatti, esiste la possibilità di utilizzare il Laser Interferometer Gravitational Wave Observatory (Ligo), così come Virgo e Kagra, ossia proprio quegli strumenti che rilevarono le onde gravitazionali, per cercare civiltà extraterrestri molto avanzate, che abbiano deciso di viaggiare tra le stelle utilizzando enormi astronavi (più simili a pianeti che a navi spaziali) e che siano in grado di muoversi a velocità prossime a quella della luce, astronavi stellari chiamate RAMAcraft, da Rapid And Massive Accelerating Spacecraft, a ricordo del racconto Incontro con Rama di Artur Clarke. 

Stando al gruppo di ricercatori l’umanità è ormai in grado di rilevare le onde gravitazionali eventualmente prodotte in fase di accelerazione/decelerazione proprio da astronavi aliene di grande massa, ossia di dimensioni davvero gigantesche, tali da produrre onde gravitazionali abbastanza forti da essere rilevate dagli strumenti in nostro possesso. Stando agli autori le astronavi dovrebbero avere una massa simile a quella di Giove. Ma questo non basterebbe, perché un’astronave di tali dimensioni non produrrebbe onde gravitazionali se rimanesse ferma, quindi per essere intercettate dovrebbero muoversi molto velocemente, ossia ad almeno 30mila chilometri al secondo e soprattutto accelerare molto rapidamente. Solo così si verrebbero a produrre onde gravitazionali abbastanza intense da poter essere rivelate con gli strumenti attuale fino a una distanza di circa 320mila anni luce dalla Terra.

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