Buongiorno e buon sabato, lettrici e lettori di Domani, benvenuti al nuovo numero di Areale, newsletter sull’ambiente e sul clima.

Partiamo!

Un trattato Onu sulla plastica

Per chi è arrivato di recente (ciao!), questa newsletter prende il suo nome dalla parola che si usa per indicare la superficie geografica di distribuzione di una specie. Ogni specie animale o vegetale ha un areale, abbiamo iniziato questo percorso parlando dell’areale umano e di come si incroci, ostacoli e limiti quello di ogni creatura o pianta o pesce.

Ma c’è qualcosa che – idealmente, allargando arbitrariamente l’idea scientifica che c’è dietro questa parola – ha un areale ancora più vasto di quello delle persone: la plastica. Ne abbiamo trovata sulla cima dell’Everest, si può rintracciare la microplastica nei campioni di neve a qualunque altitudine fino agli 8.840 metri. Ne abbiamo trovata nella Fossa delle Marianne, il punto più profondo dell’oceano.

Qualche numero fa vi avevo raccontato la storia del capodoglio trovato con una serra intera dentro lo stomaco, la settimana scorsa in Sri Lanka due elefanti sono stati trovati morti dopo essersi nutriti di plastica – soprattutto packaging alimentare – da una discarica.

Un dato: la massa della plastica che abbiamo prodotto ha superato quella di tutti i mammiferi viventi. Un altro dato: se non fermiamo questa ondata di marea, nel 2040 il peso di tutta la plastica negli oceani avrà superato quello di tutti i pesci che abitano gli stessi oceani. Ultimo dato: solo il 10 per cento della plastica prodotta della storia è stato riciclato.

Per questo motivo, la Environmental investigation agency è tornata a proporre un’idea che da tempo circola negli ambienti della diplomazia ambientale senza riuscire a concretizzarsi: quella di un trattato internazionale sulla plastica, una convenzione Onu sul modello di quelle che guidano la lotta ai cambiamenti climatici e alla perdita di biodiversità.

L’idea è che l’inquinamento da plastica abbia bisogno della stessa priorità geopolitica e solo un trattato internazionale potrebbe portare l’azione su quel livello, senza lasciarla più alla volontà dei singoli paesi o di accordi dagli scopi più limitati. Anche i grandi produttori si sono uniti a questa richiesta: 70 aziende – tra cui Coca Cola, Pepsi, Unilever, Nestlè – hanno invocato un trattato Onu per ridurre la produzione e l’uso di plastica vergine. 

Le emissioni (così le definisce Eia nel suo nuovo rapporto dedicato a sostenere la causa di un trattato internazionale, che si può leggere qui) di plastica negli oceani triplicheranno nei prossimi vent’anni, seguendo il ritmo della crescita della produzione e nutrite dalla difficoltà di mettere in piedi sistemi di riciclo su scala globale: parliamo di 646 milioni di tonnellate di materiale non biodegradabile.

L’uscita di questo rapporto non è casuale: il 28 febbraio a Nairobi, in Kenya, ci sarà la quinta sessione della United Nations environment assembly. Uno dei temi centrali sarà proprio l’inquinamento da plastica.

Come contesto, secondo un altro studio pubblicato di recente, stiamo superando uno di quei punti di non ritorno oltre i quali siamo in territorio ecologicamente sconosciuto, quello dell’inquinamento chimico: pesticidi, antibiotici, composti industriali e la stessa plastica.

La ricerca – pubblicata su Enviromental Science and Technology – parte dall’idea codificata nel 2009 che esistano nove confini planetari entro i quali dobbiamo muoverci per conservare la stabilità climatica che ha permesso lo sviluppo agricolo e sociale dell’umanità (clima, oceani, ozono). Ogni volta che superiamo una soglia, mettiamo a rischio in modo irreversibile l’equilibrio che ha fatto di noi quello che siamo.

Lo studio considera la pressione chimica come una di queste soglie di squilibrio. Sono 350mila i composti che introduciamo nell’ambiente. La produzione chimica è cresciuta di 50 volte dal 1950. Crescerà del 50 per cento entro il 2050. È una pressione sugli ecosistemi insostenibile.

«Basandoci sulle prove in nostro possesso, l’umanità sta attualmente operando al di fuori dei confini e dei limiti del nostro pianeta», dicono i ricercatori.

Non è per altro la prima volta che sentiamo una frase del genere. È una situazione pericolosa, perché non abbiamo parametri di confronto su quanto gli ecosistemi siano in grado di reggere l’inquinamento chimico al quale li stiamo sottoponendo e non c’è un livello base col quale confrontare, come per il clima, per il quale almeno conosciamo il livello di temperatura e concentrazione di CO2 da cui siamo partiti. Con la chimica, stiamo correndo bendati e con le forbici in mano.

Chi guiderà Cop27

Chi ha seguito i lavori di Cop26 ha visto quanto sia importante la figura del presidente nell’indirizzare, guidare, sbloccare o non sbloccare il negoziato.

Timoniere e capitano allo stesso tempo, questo è stato Alok Sharma, pur con tutti i suoi limiti personali, che sono diventati per un anno i limiti del processo stesso. Ecco, ora è giunto il momento di parlare di chi guiderà i lavori della prossima conferenza Onu sul clima, la Cop27, che si terrà in Egitto nel novembre di quest’anno.

Si tratta di Sameh Shoukry, ministro degli Esteri del regime di Al-Sisi, esperto diplomatico di carriera, ottimo inglese, esperienza sui cambiamenti climatici: nessuna. In compenso pare abbia un pessimo carattere, lo ricorda Climate Home News, facendo riferimento a un cablo diplomatico apparso su Wikileaks. L’ambasciatore americano a Ginevra Warren Tichenor ha descritto Shoukry, a sua volta rappresentante dell’Egitto, come «aggressivo», «brusco», «maleducato». Un profilo umano interessante per guidare durissimi negoziati nel corso dei quali 197 paesi discutono fino alle ultime virgole del proprio futuro ecologico ed economico.

La ministra dell’Ambiente Yasmine Fouad è invece una climatologa e curatrice di un capitolo del report Ipcc e sarà inviata speciale e coordinatrice ministeriale per l’Egitto. Shoukry sarà il 23esimo maschio su 27 a presiedere una conferenza sul clima. In settimana ha incontrato Alok Sharma per il passaggio di consegne.

Twitter @AlokSharma_RDG

Ovviamente, in qualità di ministro degli Esteri, l’Italia ha avuto a che fare anche con Shoukry nel corso delle indagini sull’omicidio di Giulio Regeni, una storia che sicuramente getta una sfumatura di inquietudine sulla partecipazione del nostro paese ai negoziati sul clima in Egitto.

Il New York Times aveva parlato di una conversazione burrascosa a Washington tra il nuovo presidente di Cop27 Shoukry e l’attuale inviato americano per il clima, allora segretario di stato, John Kerry, proprio sul caso di Giulio Regeni.

Kerry a quanto pare non riuscì a farsi un’idea, indeciso tra la sensazione che Shoukry non sapesse niente e quella che nascondesse la verità. Shoukry avrebbe poi anche detto che il caso non meritava «questa esagerazione» e aveva promesso che le indagini avrebbero dimostrato l’efficienza della giustizia egiziana. 

Un passo indietro. Perché è stato scelto l’Egitto? Perché la prossima Cop dovrà essere quella dell’Africa e l’Egitto ha l’infrastruttura, la logistica e il peso politico per reggere l’evento.

I temi centrali saranno l’adattamento, la finanza climatica, il loss and damage, tutte questioni fondamentali dal punto di vista dell’Africa. L’Egitto dal canto suo è estremamente vulnerabile alla crisi climatica: siccità, scarsità d’acqua, desertificazione, alluvioni.

Un laboratorio per il tema decisivo dell’adattamento (in un paese dove solo il 26 per cento della popolazione crede ai cambiamenti climatici, dato che spicca in riferimento, per esempio, al Marocco, dove la percentuale è del 71 per cento). Ma è inevitabile nutrire una certa preoccupazione per i diritti umani legati a un evento nel quale la partecipazione della società civile, anche in formato di proteste di piazza, è così cruciale.

Il dissenso in Egitto è di fatto fuori legge, secondo l’Arabic network for human rights information ci sono al momento 65mila prigionieri politici nel paese. Ci sarà da vigilare, sarà una Cop molto delicata.

Per un approfondimento su Cop27, Egitto e diritti umani, vi consiglio di leggere su Domani l’articolo di Andrea Rizzi

Una scoperta speciale

Ora passiamo a un po’ di bellezza prima del momento di salutarci, perché serve. Un team di esplorazione scientifica guidato dall’Unesco ha appena scoperto una grande barriera corallina al largo della costa di Tahiti. Ha la forma di una rosa e questo aspetto qui.

© Alexis Rosenfeld

Non è solo per la bellezza, però, che ne parliamo. Questa barriera corallina lunga tre chilometri si trova a trenta metri di profondità, dove inizia la twilight zone degli oceani, la zona del crepuscolo tra la luce e l’oscurità nella quale è estremamente insolito trovare barriere coralline così estese.

Questa si trova in una location perfetta, in profondità, ma abbastanza vicino alla superficie da ricevere sufficiente luce per crescere e riprodursi. Per altro questo reef è anche in condizioni di salute eccellenti, protetto e al riparo da qualsiasi pressione antropogenica.

La scoperta è interessante anche perché suggerisce che in quest’area degli oceani potrebbero esserci molte altre barriere coralline delle quali non siamo ancora a conoscenza ed è una buona cosa da sapere. A oggi solo il 20 per cento del fondo del mare è stato mappato. L’obiettivo della Intergovernmental oceanographic committee del’Unesco è arrivare a una cartografia oceanica completa entro il 2030, progetto molto affascinante di cui una volta, in una delle prossime newsletter, se vi va parliamo. Intanto abbiamo potuto portare i nostri occhi qui.

© Alexis Rosenfeld

Voci sulla tassonomia

Continua a far discutere l’inclusione del nucleare e del gas nella tassonomia europea sul clima. Il gruppo di esperti ai quali la Commissione ha chiesto di far valutare la sua tassonomia ha dato parere negativo sulla bozza che è circolata, è una notizia importante e l’ha data il Financial Times.

Definire il gas (a certe condizioni nella tassonomia) e il nucleare come investimenti giusti per chi vuole puntare sulla sostenibilità rischia di minare gli sforzi climatici dell’Unione, sostengono gli esperti, che hanno dato ragione alle proteste arrivate sia dal mondo ambientalista che da alcuni stati membri (come Austria e Lussemburgo).

Sull’energia nucleare la contestazione riguarda il principio do no significant harm, quel «non fare danni» che è un pilastro del Green Deal europeo. Non ci sono emissioni di CO2 con le centrali nucleari, ma il danno arriva, o rischia di arrivare, dalle scorie e dagli incidenti. La discussione europea andrà avanti, ma questo è passaggio significativo. 

Tra le voci che si sono espresse per chiedere alla Commissione di ripensarci prima di compromettere l’azione climatica dell’Unione ci sono anche gli ambasciatori del Patto per il clima Ue, figure scelte all’interno della società civile per rappresentare gli interessi dell’ecologia e del clima in Europa. Me l’ha segnalata Paolo Della Ventura, uno degli ambasciatori italiani del Patto, che è a sua volta un tassello importante del Green Deal: le voci che rappresentano questo percorso hanno scritto a Ursula von der Leyen, Frans Timmermans e Mairead McGuinness, commissaria a stabilità finanziaria, servizi finanziari e unione dei mercati dei capitali.

«Siamo molto delusi dalla vostra decisione di includere l’energia nucleare e il gas nella tassonomia per gli investimenti sostenibili», si legge nella lettera aperta. «L’approccio del Patto europeo per il clima è che ogni passo conta. Con questo atto delegato da voi proposto, l’Unione europea fa un grande passo all’indietro», si legge nella lettera. «La tassonomia deve essere un’etichetta di sostenibilità, ha conseguenze, guida banche, assicurazioni, altri operatori finanziari e piccoli investitori nelle scelte di investimento. La bozza di tassonomia suggerisce che la Commissione ha ascoltato di più gli interessi delle lobby che le obiezioni della società civile».

Parole di buon senso. Contro la tassonomia, le diverse raccolte firme in corso hanno superato quota mezzo milione di adesioni. Vedremo come e dove andrà.

Per questo sabato e con Areale è tutto, se avete voglia di parlare scrivetemi a ferdinando.cotugno@gmail.com. Per comunicare con Domani, invece, l’indirizzo è lettori@editorialedomani.it.

Alla settimana prossima!

Ferdinando Cotugno

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