Avete presente gli occhiali con le lenti progressive, quelli che consentono di vedere da distante e da vicino? Ottimi sia per i tanti che sono contemporaneamente miopi e presbiti sia come metafora della strategia per la transizione energetica. Nonostante gli slogan, passare dall’attuale 60 per cento di elettricità prodotta dai fossili a zero non sarà né semplice né veloce: ci vorranno decenni.

C’è bisogno di una visione nitida sia sugli interventi a breve e medio termine, sia su quelli a lungo. Recentissimi interventi del presidente Biden, della presidente Meloni e della ministra tedesca Stark-Watzinger – i primi due in occasione di Cop28 e il terzo di qualche settimana fa – mettono a fuoco un obiettivo a medio-lungo termine come quello dell’energia da fusione. Obiettivo realistico e da perseguire per un paniere energetico sostenibile, ma senza alimentare illusioni di scorciatoie: la fusione arriverà di sicuro, ma richiede tempo, così come è stato per qualsiasi nuova forma di energia.

Tempi e strategie

È quindi prevedibile che una diffusione ampia dell’elettricità da fusione sarà per la seconda metà del secolo, ma non sono orizzonti temporali che devono preoccupare, anzi. Importante è avere una strategia in mente e accelerare quando possibile, mettendo in parallelo vari approcci.

Risparmio energetico subito, quindi, per le economie che se lo possono permettere. Per risparmiare occorre avere, e a quella enorme fetta di popolazione che vive in gran parte nell’Africa subsahariana e nelle regioni più povere del pianeta e che non ha accesso all’energia elettrica (circa 800 milioni) o a sistemi di cottura efficienti e non inquinanti e pericolosi per chi li usa (due miliardi e 800 milioni), l’energia dobbiamo darla, e anche in fretta se vogliamo contribuire a eradicare la povertà energetica e a disinnescare la bomba migratoria.

La paura di un aggettivo

Sul breve e medio termine puntiamo sulle rinnovabili, ma per una soluzione davvero sistemica che ci liberi completamente dal giogo dei combustibili fossili bisogna guardare lontano, consapevoli che la transizione energetica è una questione complessa che non ammette soluzioni semplici. In quest’ottica è interessante quanto sta accadendo nel mondo sulla fusione nucleare.

L’aggettivo “nucleare” farà inarcare qualche sopracciglio, ma il più grande reattore a fusione ce lo abbiamo proprio sopra la testa ed è il sole. La fusione si basa sull’unione di nuclei leggeri come l’idrogeno o i suoi isotopi, a differenza della fissione che trasforma energia dalla rottura di nuclei pesanti come quelli di uranio e che alimenta gli attuali reattori.

Il sole fonde circa 600 milioni di tonnellate di idrogeno al secondo: la fusione è fondamentale per la vita sulla terra. Un reattore a fusione è intrinsecamente sicuro poiché in caso di scostamento dalle condizioni ottimali si spegne da solo, per leggi fisiche e non grazie a sistemi ideati dall’uomo. E, oltre a non rilasciare CO2 , non produce scorie radioattive di lunga durata e il suo combustibile si ricava dall’acqua e da minerali di litio.

Insomma, una panacea per il nostro mondo surriscaldato? Senz’altro un componente cruciale per un futuro paniere energetico libero da CO2, ma occorre ancora parecchio lavoro.

I tempi

Proprio perché è così sicura, è anche così difficile da realizzare: un reattore a fusione deve sempre lavorare in condizioni ideali. Alla fusione ricercatori di tutto il mondo lavorano da decenni. Attorno a essa sono purtroppo nati anche facili entusiasmi, che non hanno fatto bene alla credibilità del settore.

Ancora adesso si sentono promesse sui tempi davvero ardite. Bisogna essere realisti, perché – come ben illustra un articolo di Vaclav Smil su Scientific American – nella storia tutte le grandi transizioni energetiche, dal legno al carbone al petrolio al gas, hanno avuto bisogno di circa una cinquantina d’anni ciascuna.

Nonostante l’urgenza e il progresso tecnologico, è difficile pensare che di colpo si possa accelerare drasticamente nella transizione verso un paniere non fossile. Sulla fusione c’è però molto lavoro solido. In primis un esperimento come Iter, in costruzione in Francia grazie a una cooperazione internazionale tra Unione europea, Cina, Corea, Cina, Giappone, India, Federazione russa e Stati Uniti, un notevole esempio di diplomazia scientifica che mette insieme scienziati provenienti da realtà geopolitiche molto diverse.

Il progetto italiano

Iter ha intrapreso la difficile sfida di dimostrare la fattibilità della fusione in modo integrato, proponendosi di risolvere quindi molti dei problemi che tutti i futuri reattori incontreranno. Iter, per la cui realizzazione l’industria italiana hi-tech ha ottenuto commesse per oltre un miliardo e mezzo di euro sbaragliando la concorrenza europea, è accompagnato da programmi di ricerca internazionali come quello che, alle porte di Roma, nei laboratori di Frascati, sta costruendo il dispositivo “made in Italy”, vede lavorare insieme sotto la guida dell’Enea ricercatori di Enea, Eni, Cnr, Infn e di importanti università italiane, in un’inedita collaborazione tra ricerca pubblica e privata, e diventerà punto di riferimento a livello mondiale per lo sviluppo dell’energia da fusione.

Al cammino verso l’energia da fusione si sono recentemente aggiunte molte imprese private, soprattutto negli Stati Uniti, dove la punta di diamante è la Commonwealth Fusion System. Nella ricerca sulla fusione sono arrivati investimenti privati per oltre sei miliardi di dollari nell’ultimo paio d’anni, uno sforzo massiccio che ha scosso l’intero settore.

L’attenzione dei governi

Crisi climatica, guerra in Ucraina, progressi nella ricerca e investimenti privati hanno richiamato l’attenzione dei governi sulla fusione. Ecco, quindi, che sabato scorso l’amministrazione Biden-Harris ha inserito la fusione all’interno del documento programmatico americano per la Cop28, con l’impegno a lanciare «una strategia di partenariato internazionale per l’energia da fusione degli Stati Uniti. Questa strategia sosterrà lo sviluppo, la dimostrazione e l’impiego tempestivo dell’energia da fusione commerciale in aree strategiche come la ricerca e lo sviluppo e l’armonizzazione dei quadri normativi».

Da Dubai, Giorgia Meloni ha esplicitamente menzionato la fusione sostenendo che «senza visione non si va da nessuna parte», ricordando che essa è «una di quelle tecnologie sulle quali l’Italia è più avanti» e che il nostro paese deve «avere la capacità di pensare in grande e questo è uno di quei temi sui quali l’Italia può pensare in grande».

A settembre il governo tedesco aveva invece annunciato un finanziamento record di un miliardo di euro nei prossimi cinque anni. L’atmosfera sulla fusione è quindi positiva, ora però bisognerà vedere se alle parole seguiranno, con continuità temporale, azioni concrete. Dal punto di vista del sostegno finanziario, naturalmente, ma anche politico e culturale.

Cruciale sarà infatti lavorare a un’alleanza tra governi, imprese, scienza e pubblica opinione, che richiede comunicazione e trasparenza. L’impegno della scienza dovrà essere quello dell’informazione e della chiarezza sui tempi, mantenendo sempre quel realismo che è cardine del pensiero scientifico. Tanto più scienziati e industrie saranno chiari, tanto minori i rischi di illudere.

L’impegno di chi governa, in particolare in Italia e in Europa, è quello invece di mettere sempre la transizione energetica al centro delle strategie, affrontando i problemi veri, senza slogan o distrazioni. Siamo tutti nella stessa barca, e non possiamo permetterci di fare a meno di qualsiasi forma di energia che ci porti a liberarci dai fossili. Il rischio più grosso è infatti quello di una guerra tra poveri, nella quale prevalga il timore che i finanziamenti a una forma di energia portino via risorse ad altre.

Quando invece il problema vero è che sulla transizione energetica investiamo ancora di gran lunga troppo poco: per ogni dollaro che il mondo spende in armi, ne investe un centesimo sulla ricerca per l’energia, comprese le energie fossili. Salvo poi realizzare di fronte alle guerre quanto l’energia sia essenziale per le nostre vite.

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