La guerra, nella sua quotidiana operazione di devastazione, saccheggio e morte, mette allo scoperto anche le contraddizioni di un sistema globalizzato fatto di scambi commerciali e accordi di fornitura. 

Lo abbiamo visto con i costi energetici. Siamo stati costretti a scoprire quel che distrattamente sapevamo ma che, solo fino a qualche settimana fa, guardavamo con un certo distacco: il sistema energetico italiano dipende per oltre il 40 per cento dalle importazioni di gas russo.

L’Europa supporta gli ucraini nella loro azione di resistenza ma non è nelle condizioni, almeno finora, di spezzare il cordone ombelicale energetico che ci lega alla Russia. 

Quando il sistema salta, però, vengono meno tutte le certezze. Basta guardare quel che accade ai sistemi alimentari. 

L’emergenza climatica, la pandemia, il caro energia e ora la guerra in Ucraina. Quattro crisi sovrapposte stanno generando effetti a catena sulle filiere internazionali delle materie prime alla base del sistema agroindustriale.

Materie prime

Nelle ultime settimane abbiamo visto i prezzi del gas crescere a dismisura. Stanislao Fabbrino, presidente di Fruttagel – una società specializzata nella trasformazione di frutta, ortaggi e cereali – ha fatto i conti: se nel 2019 la bolletta di energia e metano era di 6 milioni di euro, nel 2022 dovrà spenderne almeno 24, sempre che le cose non peggiorino ulteriormente. Parliamo del 400 per cento in più. 

All’aumento dei costi energetici, si sono sommati quelli delle materie prime. Frumento e mais hanno raggiunto prezzi senza precedenti.

Le ragioni sono diverse, non tutte imputabili alla guerra: l’aumento dei prezzi del grano duro è figlio della siccità (leggi crisi climatica) che ha portato al crollo della produzione canadese.

Lo stesso vale per il mais, destinato in questo caso alla zootecnia, che registra un aumento vertiginoso dei prezzi a causa dell’aumentata domanda cinese. Infine il blocco delle importazioni da Russia e Ucraina e, non ultimo, quelle che Ismea definisce “speculazioni”.

C’è una prima considerazione da fare: il made in Italy dipende fortemente dalle importazioni di materie prime da paesi terzi.

Per produrre il prosciutto di Parma abbiamo bisogno di mais ucraino (e non solo). Per l’italianissima pasta, del grano duro canadese. Per ogni singola fase della produzione, necessitiamo di energia, che al momento proviene principalmente da fonti non rinnovabili. 

Se la guerra in Ucraina mette in evidenza tutte le fragilità di questo sistema, la domanda da porsi è cosa fare. 

Sovranità alimentare

All’indomani del Consiglio straordinario dei Ministri europei dell’agricoltura, sembra essere partita una rincorsa alla “sovranità alimentare” del vecchio continente.

Politica e imprese si sono appropriate di un concetto coniato dai movimenti contadini alla fine degli anni Novanta, per chiedere a gran voce un ripensamento dei sistemi alimentari industrializzati e che oggi, al contrario, assume il significato opposto: depotenziare la strategia Farm To Fork e quella sulla biodiversità.

In una parola, smantellare l’impianto della transizione ecologica dei sistemi alimentari per produrre di più a casa nostra, senza porsi il problema del cosa e del come. La maggioranza dei terreni europei già oggi è destinata a colture per l’alimentazione animale: invece di riconvertirli, vogliono espanderli. 

Proprio ieri, il presidente del Consiglio, Mario Draghi, è intervenuto alla Camera traslando questa narrazione direttamente nel nostro paese: «Non è facile aumentare la superficie coltivabile sulla base dei regolamenti comunitari, quindi occorrerà, anche in questo caso, riconsiderare».

La proposta era nata dal Copa-Cogeca, organizzazione che riunisce le associazioni agricole di categoria e le cooperative agroalimentari dei 27 paesi Ue sembra avere le idee molto chiare: «Bisogna poter coltivare tutta la terra disponibile nel 2022 per compensare il blocco della produzione russa e ucraina».

Tradotto: bisogna eliminare il vincolo del 10 per cento di superficie agricola da lasciare incolta su ogni terreno arabile. Questa prescrizione, seppur esigua e già ridotta ai minimi termini con l’approvazione della Politica agricola comune, doveva servire a tamponare l’impatto delle monocolture, lasciando spazio a impollinatori come le api e ad altri insetti fondamentali per l’agricoltura e gli ecosistemi.

Per capire l’importanza di questa percentuale, è sufficiente riprendere i dati di Birdlife Europe, secondo cui dal 1980 l’Ue ha perso il 57 per cento degli uccelli che vivevano nelle zone agricole. 

Oggi invece gli uccelli diventano un intoppo, le api, così fondamentali per la produzione di cibo, un inutile ostacolo alla produzione. 

Non allontanare la soluzione

Il tentativo sembra quello di utilizzare la crisi e la guerra per rimettere in discussione l’impianto normativo europeo in campo climatico e ambientale. I segnali non mancano anche in Italia.

Basti ascoltare le dichiarazioni di Carlo Bonomi, presidente di Confindustria, alla trasmissione Mezz’ora in più domenica scorsa: «Bisogna essere realisti, allungare i tempi e spostare gli obiettivi della transizione ecologica».

Ma rispondere a una crisi sistemica allontanando la soluzione è quanto di più miope possiamo fare. La transizione ecologica giusta è infatti di per sé strumento di pace, perché pone al centro l’armonia delle società negli ecosistemi.

Allontanare la transizione ecologica significa creare le premesse per nuove crisi e nuovi conflitti, oltre che perdere altro tempo prezioso per affrontare un’altra emergenza che non ha confini: quella climatica.

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