Gli allagamenti nel crotonese, il disastro causato da acqua e fango a Bitti in Sardegna, gli ultimi difficilissimi giorni a Belluno, Modena, Messina. Ogni alluvione locale ha cause locali, ma c'è un motivo unico per cui da nord a sud gli italiani finiscono regolarmente sott'acqua: la superficie sempre più impermeabile e cementificata del nostro paese.

È il paradosso del consumo di suolo: è la più negletta delle emergenze ambientali italiane ma anche quella i cui effetti sarebbero più concreti, misurabili, evidenti. Secondo i dati Ispra il comune di Corigliano Rossano è stato il principale consumatore di suolo in Calabria nel 2019, 15,1 ettari sui 118 totali della regione. Un anno dopo è stato tra quelli che si sono trovati con le vie trasformate in fiumi dalle piogge intense di metà novembre in Calabria.

Il rapporto sulla vulnerabilità

«Un suolo permeabile, come quello agricolo o naturale, trattiene e rallenta l'acqua, che ha modo di infiltrarsi ed essere assorbita. Invece un suolo reso impermeabile dal cemento o dall'asfalto la tiene in superficie, ne aumenta la velocità e la portata, ne amplifica la pericolosità idraulica», spiega Michele Munafò, il responsabile dell'ultimo rapporto di Ispra sul consumo del suolo.

«Bomba d'acqua» è una metafora abusata e sbagliata ma, se proprio vogliamo usarla, il terreno impermeabile di città e paesi diventa il cannone che spara quelle bombe d'acqua cadute dal cielo contro case e cittadini.

Danni e vittime del maltempo non sono causati dal maltempo, ma dalla fragilità del nostro paese. I dati Ispra ci dicono che in Italia si continuano a costruire case, palazzi, strade, capannoni e infrastrutture su suolo vergine, sottraendolo in modo irreversibile alle sue funzioni ecosistemiche, come se non fossimo in emergenza climatica.

Il rapporto 2020 è una mappa della vulnerabilità che stiamo infliggendo al territorio e che ogni nubifragio ci ricorda: nell'ultimo anno abbiamo coperto artificialmente altri 57,5 chilometri quadrati di suolo, mangiando in media 16 ettari al giorno, due metri quadrati al secondo, con i picchi in Veneto, Lombardia, nelle pianure del nord, lungo le coste della Sicilia, nella Puglia meridionale e nell'area metropolitana di Roma. È l'opposto di una strategia di adattamento climatico: limitare il consumo di suolo sarebbe uno dei principali strumenti di mitigazione concreta dell’emergenza.

Ce lo chiedono l'Unione Europea, che ha messo il bilancio di suolo zero come orizzonte da raggiungere entro il 2050, e gli obiettivi di sviluppo sostenibile dell'Agenda 2030 delle Nazioni Unite. Nel parlamento italiano si discute di consumo di suolo da otto anni, attualmente ci sono tredici disegni di legge all'esame, nessuno con un esito favorevole in vista.

Le promesse mancate

Chiedere o promettere questa legge sul consumo di suolo è diventato uno dei tanti fatti ciclici della politica italiana. L'ultimo è stato il ministro dell'ambiente Sergio Costa durante la Giornata mondiale del suolo, il 5 dicembre. La invocano Coldiretti, il Consiglio nazionale dei geologi, la stessa Ispra. «Una legge nazionale sarebbe fondamentale non solo perché ci darebbe un vero obiettivo di azzeramento», spiega Munafò, «ma anche perché oggi le regioni si comportano in modo disomogeneo.

Alcune hanno buone norme, altre hanno norme superate dal punto di vista tecnico, altre non ne hanno proprio. E inoltre c'è un problema di raccolta dati: ci sono definizioni e misure diverse da regione a regione, senza una buona conoscenza non si possono fare buoni interventi».

Insomma: per ora è il caos, con ogni amministrazione locale che fa da sé. Chiara Braga, deputata e responsabile ambiente del Partito Democratico, spegne le illusioni: «La legge sul consumo di suolo è arenata in commissione ed è sostanzialmente finita su un binario morto».

La XVIII legislatura sarà la terza di fila che non riuscirà a intervenire sul tema. Perché? «C'è questa idea che mettere regole stringenti al consumo di suolo bloccherebbe l'edilizia, ma la legge che avevamo approvato era condivisa col mondo delle costruzioni, dava obiettivi progressivi e apriva alla riqualificazione». Non è servito a niente, tutto fermo, anche per l'ostruzionismo dell'opposizione all’interno delle commissioni.

La prospettiva legislativa più concreta, secondo Braga, è inserire parte delle norme sul consumo di suolo nel collegato ambientale alla prossima legge di bilancio, per risolvere almeno uno dei tanti problemi evidenziati da Ispra: in Italia si continua a consumare suolo anche se la popolazione ha smesso di crescere, perché piani regolatori e progetti di sviluppo sono pensati per una demografia che non esiste più. Il collegato ambientale conterrebbe una norma che impedisce a questi diritti edificatori di essere eterni. O si costruisce o decadono.

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Ambientalisti contro sviluppisti

I Radicali hanno fatto del consumo di suolo una bandiera da prima che entrasse nel dibattito parlamentare, dove per ora non ci sono più, ma del quale conoscono bene le dinamiche che neutralizzano ogni possibile intervento. Per il presidente Igor Boni «il fallimento di ogni proposta è dovuto al fatto che questo è un altro tema sul quale si è creato uno scontro da stadio, ambientalisti contro sviluppisti, e questo tipo di conflitti vanno sempre a vantaggio dei secondi.

Consumo di suolo zero è come dire: rifiuti zero, è impossibile. Servirebbe un sistema di compensazione ecologica, analogo al principio che chi inquina paga. Se usi un ettaro, devi recuperarne un altro, finanziando per esempio la sua restituzione a usi agricoli. Dobbiamo ricordarci che il suolo è finito».

L'idea che il suolo sia finito ha un doppio significato, è una risorsa limitata ma anche una risorsa in esaurimento. «Contadini e costruttori si contendono, per motivi diversi, gli stessi terreni, quelli pianeggianti e accessibili», spiega Munafò.

È una competizione che da decenni vede l'agricoltura soccombere: oggi è quasi sempre più economicamente conveniente aumentare il consumo di suolo, rendendolo impermeabile e pericoloso, che rigenerare costruendo all’interno di quello già utilizzato. Il risultato, secondo i dati Coldiretti, è che sono sparite per cementificazione o abbandono il 28 per cento delle campagne negli ultimi quindici anni, col paradosso che esiti opposti, incuria nelle aree di alta collina o montagna e uso intensivo in pianura, hanno lo stesso effetto: dissesto e vulnerabilità idrogeologica.

«Per l'urbanistica italiana il suolo agricolo è sempre stato considerato un vuoto da colmare», spiega Stefano Masini, responsabile ambiente di Coldiretti, «È una visione che va superata, bisogna ricucire il rapporto tra città e campagna, riconoscere al suolo agricolo una vocazione che va al di là della produzione di cibo, una funzione di presidio, cura e protezione del territorio». 

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