Il 12 ottobre prossimo, al tribunale di Vicenza, andrà in scena l’udienza preliminare del processo penale in corso che vede imputati tredici manager che, in varie epoche storiche, hanno avuto un ruolo dirigente nell’azienda chimica Miteni, di Trissino, in provincia di Vicenza. Un anno fa la pm Barbara De Munari aveva formulato un’accusa disastro ambientale e avvelenamento delle acque destinate al consumo. Oggi, la procura della Repubblica e le parti civili chiedono il rinvio a giudizio. L’azienda produceva acidi perfluoroacrilici (Pfas), e dopo un’approfondita ricerca, i ricercatori si trovarono di fronte all’inquinamento da Pfas più grande d’Europa.

È una storia che parte da lontano: «La prima volta che ho incontrato questa storia è stato alla fine del 2012, inizio 2013. Me ne aveva parlato un mio ex professore del liceo. Diceva che da studi credibili sulla nostra zona era emerso come fossimo seduti su una bomba: la falda acquifera era stata contaminata. Avevo tre bambini piccoli, non volevo nemmeno credere che esistesse veramente un problema di tali dimensioni». Così racconta la nascita delle MammeNoPfas Laura Facciolo, una di loro. «Nel 2017 venimmo a sapere di uno screening in corso nella provincia di Vicenza tra gli adolescenti da cui emergevano dati sconcertanti sulle concentrazioni di Pfas nel sangue. Io e altre mamme abbiamo scritto al sindaco di Montagnana, abbiamo proposto di pagare l’acqua per le scuole e gli asili, in modo da non usarla per cucinare, ma tutti ci ripetevano che era tutto sotto controllo».

La storia della Miteni di Trissino

Al centro c’è un’azienda chimica nata nel 1965 a Trissino, nel Vicentino, come centro di ricerca nel gruppo tessile Marzotto, con il nome di RiMAr (Ricerche Marzotto), utilizzata per la produzione, tra l’altro, di acidi perfluoroacrilici (Pfas) usati per impermeabilizzare i tessuti. Nel 1988, EniChem e Mitsubishi rilevano la società, cambiando il nome in Miteni (Mitsubishi-Eni). Nel 1996, Mitsubishi acquisisce il cento per cento delle azioni e nel 2009, la società viene venduta all’International Chemical Investors Group (Icig), attraverso la controllata WeylChem, per la cifra simbolica di un euro. Il 26 ottobre 2018, il consiglio d’amministrazione della società delibera il deposito dell'istanza di fallimento. Miteni di Trissino viene dichiarata fallita il 9 novembre 2018. Ma tutto quello che ha lasciato dietro di sé è ancora nella vita di un territorio enorme e di tante persone.

La ricerca rivelatrice

«Nel 2006 c’era stata una ricerca, nella quale non eravamo coinvolti, sui fiumi europei. Il Po risultò molto inquinato da Pfoa (acido perfluoroottanoico), in particolare nella zona di Spinetta Marengo, e il ministero dell’Ambiente ci incaricò di un’indagine nazionale. Notammo il caso della Miteni. E siamo andati a vedere». A parlare è Sara Valsecchi, ricercatrice Irsa – Cnr. «Iniziammo a campionare i fiumi della zona dove finivano gli scarichi e trovammo concentrazioni consistenti. Tornavamo tre volte l’anno, perché i fiumi cambiano, ma per puro caso, in un ristorante di Trissino, prendemmo l’acqua.

E quel che trovammo erano concentrazioni altissime, tanto che pensai di aver sbagliato campioni.Tememmo la contaminazione della falda nei pressi della Miteni. Allargammo tutto attorno la nostra ricerca e confermammo questa grossa contaminazione». Venne a galla l’inquinamento da Pfas più grande d’Europa: almeno 400mila cittadini contaminati, un territorio oggi molto più grande dei 180 chilometri quadrati iniziali. «L’azienda cercava il profitto», commenta Laura Facciolo «non considerando minimamente l’impatto sull’ambiente e sulle persone. Ma mi domando dove fossero i controlli pubblici e perché i cittadini non sono stati informati della situazione non appena era stata compresa la gravità del problema».

Il nodo della bonifica

Il terreno sottostante al sito produttivo è come una spugna impregnata di Pfas, ogni volta che il livello di falda si alza ancora oggi rilascia picchi di veleni. Finché la bonifica non sarà completa, i filtri a carboni attivi e la costruzione dei nuovi acquedotti in corso non risolveranno del tutto il problema.

Il lavoro della conferenza dei servizi che si occupa di ripulire il suolo sottostante la Miteni va avanti ormai da anni con a capo il Comune di Trissino e la presenza dei tecnici regionali, della Provincia di Vicenza, del Genio civile e dei consulenti di Ici3, società appartenente a Icig che si è intestata l’onere della bonifica.

Il tavolo tecnico procede nella massima riservatezza nella sede vicentina di Arpav, ma da informazioni in nostro possesso le attività procedono su due filoni: la creazione di una barriera metallica da conficcare nel terreno per separare la Miteni dal torrente Poscola che gli scorre alle spalle e preservare parte della falda; e poi lo studio di un modello matematico basato su una campagna di carotaggi in grado di descrivere il comportamento delle acque sotterranee e permettere interventi efficaci.

I tempi? Dipendono dall’emergenza Covid: prima di tutto è necessario che gli indiani della Viva Life Sciences Private Limited, che nel giugno 2019 si sono aggiudicati macchinari e brevetti all’asta fallimentare per 4 milioni di euro, ottengano dalla Prefettura il via libera a prelevare i macchinari.

Il processo avanza

E si arriva al 12 ottobre nelle aule del tribunale di Vicenza. Come detto, saranno formulate le accuse ai giapponesi Kenji Ito, Naoyuki Kimura, Yuji Suetsune e Maki Hosoda oltre che a Patrick Schnitzer, Achim Riemann, Alexander Smit, Brian Mcglynn, Luigi Guarracino, Mario Fabris, Davide Drusian, Mauro Cognolato e Mario Mistrorigo. Tutti, in periodi diversi, dirigenti della Miteni. Per iniziativa della Regione Veneto, parte civile nel procedimento, sono state chiamate a processo anche le multinazionali Mitsubishi e Icig che in caso di condanna dovranno rispondere alle richieste di risarcimento danni della Regione e dei singoli cittadini. Alla richiesta di un’intervista, Antonio Nardone, ultimo amministratore delegato Miteni, ha declinato l’invito.

L’avvocato Matteo Ceruti, con i colleghi Marco Casellato e Cristina Guasti difende un centinaio di parti civili, cioè la totalità delle MammeNoPfas. «I nostri clienti chiedono un duplice risarcimento danni – spiega il legale - Uno legato al mutamento alla qualità di vita conseguente alla vicenda e uno legato alla preoccupazione all’insorgenza delle patologie correlate all’esposizione ai Pfas con otto atomi di carbonio». Patologie che l’agenzia Europea per l’ambiente lo scorso dicembre ha indicato in cancro al rene e al testicolo, disfunzioni tiroidee, danni al fegato, incremento del livello di colesterolo mentre il Servizio epidemiologico della Regione Veneto ha registrato nella zona rossa dell’inquinamento l’aumento di incidenza di cardiopatie ischemiche, malattie circolatorie e cerebrovascolari, demenze a cui si aggiungono esiti materni e neonatali come difetti congeniti al cuore, anomalie al sistema nervoso, nascite con basso peso o poliabortività.

«Si tratta di dimostrare che in astratto queste malattie potrebbero insorgere dopo la prolungata esposizione – riprende l’avvocato Ceruti – Certo, il fatto che l’indagine epidemiologica deliberata dalla Giunta Regionale nel 2016 e affidata all’Istituto superiore di sanità non sia mai partita rappresenta uno scandalo. Quella rimane l’unica via per dimostrare la causalità Pfas-patologie. Il piano di sorveglianza in atto da parte dell’Ulss 8 misura solo la presenza di Pfas nel siero, ma non indaga le patologie presenti».

«Cosa mi aspetto dal processo?», chiede Laura, mentre lavora da casa badando ai tre figli, due dei quali sottopeso da gravidanza a rischio, come la seconda figlia. «La condanna dei dirigenti e un risarcimento morale e materiale. Nessuno potrà risarcirmi per quello che ho subito a mia insaputa in gravidanza, ma un risarcimento segnerebbe per noi il riconoscimento dell’enormità di quanto abbiamo subito. Io, nella vita, mi occupo di test clinici sui farmaci. Ecco, mi sono sentita parte di un gigantesco esperimento, ma senza che nessuno abbia chiesto il nostro consenso».

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