Quasi un quarto delle specie di piante alpine italiane è minacciato dal ritiro dei ghiacciai. Ad affermarlo è uno studio pubblicato su Frontiers in Ecology and Evolution da un gruppo di ricercatori italiani di varie università e centri di ricerca. Le conclusioni sembrerebbero contrastare con la semplice idea che più spazio si lascia alle piante, grazie al ritiro dei ghiacci, e maggiore sarà la loro distribuzione e crescita. Spiega infatti Gianalberto Losapio della Standford University che ha partecipato alla ricerca: “I nostri risultati dicono che la diversità delle piante dopo un certo periodo diminuirà e questo avverrà una volta che i ghiacciai scompaiono. Stando alle nostre ricostruzioni è possibile che fino al 22 per cento delle specie che abbiamo analizzato potrebbe scomparire localmente o addirittura estinguersi per sempre una volta che i ghiacciai se ne saranno andati. Alcune specie infatti, beneficeranno del riscaldamento globale, le cosiddette “vincitrici”, mentre altre, ”le perdenti”, ne soffriranno profondamente. I ricercatori sono giunti a questa conclusione analizzando l’andamento di 117 specie di piante degli ultimi 5.000 anni in rapporto all’andamento di quattro importanti ghiacciai alpini.

Gli aerei e l’inquinamento

I voli aerei, che stanno aumentando sempre più anche a causa dei low-cost, sono responsabili di circa il 2,4 per cento delle emissioni di carbonio prodotte dall’uomo, una cifra che tra l’altro, è in forte crescita. Riuscire quindi, a ridurre tali emissioni sarebbe molto utile per l’ambiente.

Secondo un nuovo studio, oltre che ad agire sulla tecnologia degli aerei stessi esisterebbero anche altre strade per raggiungere tale obiettivo, tra le quali quella di sfruttare al meglio le “correnti a getto”. Si tratta di veri e propri “fiumi di aria” che scorrono principalmente da ovest verso est in entrambi gli emisferi per diverse migliaia di chilometri, con una sezione trasversale relativamente piccola, qualche centinaio di chilometri di larghezza per circa 4 chilometri d'altezza, che si muovono tra gli 11.000 e i 14.000 metri di quota, dove la velocità dell’aria varia da 150 chilometri all’ora per arrivare anche a 450 chilometri orari.

Le compagnie aeree già da tempo le sfruttano per risparmiare tempo e carburante, ma lo studio dimostra che scegliendo rotte ancora più “intelligenti” per sfruttare tali venti, i voli transatlantici potrebbero ridurre l’uso di carburante fino al 16 per cento e conseguentemente produrre meno anidride carbonica.

Per riuscire in ciò, la chiave del successo è la “flessibilità nei voli”, dicono i ricercatori dell’Università di Reading nel Regno Unito che hanno realizzato l’interessante studio. Si tratta cioè di consentire agli aerei di variare le loro traiettorie di volo più frequentemente e in misura maggiore rispetto ad oggi adattandosi alle correnti a getto che vi sono nel giorno del volo. 

I progressi nella tecnologia satellitare e di localizzazione permettono di realizzare tutto ciò senza creare rischi ai viaggi. Lo studio ha preso in esame circa 35.000 voli tra Londra e New York, dal 1° dicembre 2019 al 29 febbraio 2020, voli che hanno interessato quasi un milione di passeggeri.

Sfruttando le correnti a getto, uno di quei voli ha risparmiato il 16 per cento di carburante, ma ciò si è verificato perché la linea di volo e le correnti a getto di quel giorno si erano accordate involontariamente, ma la media del risparmio è stata molto inferiore: solo del 2,5 per cento per i voli dagli Stati Uniti a Londra.

«Il passaggio a velivoli più efficienti o il passaggio all’uso di biocarburanti o elettrici potrebbe ridurre le emissioni in modo significativo, ma sarà costoso e potrebbe richiedere decenni per ottenere ciò», afferma Paul Williams, dell'Università di Reading. "Semplici ritocchi alle traiettorie di volo invece, sono molto più economici e possono offrire vantaggi immediati”.

Ancora gas distruttori dell’ozono

Tre sostanze, la cui origine è di difficile localizzazione e delle quali non è chiaro l’utilizzo, ma che aiutano a creare il buco nell’ozono, sono state individuate nell’atmosfera da un gruppo di ricercatori guidato da Martin Vollmer dei Laboratori Federali svizzeri per la Scienza e la Tecnologia dei materiali a Dübendorf. Le analisi sono state eseguite in vari campioni d’aria presi in diverse parti del pianeta, le quali hanno individuato tre composti di idroclorofluorocarburi tra cui uno denominato HCFC-132b, il quale non era mai stato individuato precedentemente, anche se sembra fosse già presente 20 anni fa e le cui quantità sono aumentate fino ad oggi.

Lo studio ha poi messo in luce anche la presenza di altri due composti, HCFC-133a e HCFC-31, i cui livelli, nel corso del tempo, sembrano essere oscillati.

Quel che ha lasciato perplessi i ricercatori è il fatto che di queste tre sostanze non si conosce alcun uso particolare. Stando all’ipotesi maggiormente accettata essi sarebbero sottoprodotti intermedi nei percorsi di produzione chimica di particolari sostanze rimaste sconosciute, probabilmente prodotte in Cina.

Satelliti e foreste

Utilizzando dati raccolti a terra, da aerei e soprattutto da satelliti, un gruppo di ricercatori internazionale ha dato vita ad un nuovo metodo per valutare come i cambiamenti nelle foreste negli ultimi due decenni abbiano influenzato le concentrazioni di carbonio nell'atmosfera.

Oltre a comprendere meglio il ruolo complessivo delle foreste nel ciclo globale del carbonio, gli scienziati sono stati anche in grado di distinguere i contributi dei vari tipi di foresta, confermando che quelle tropicali sono le principali responsabili nelle fluttuazioni globali del carbonio, in quanto assorbono più carbonio rispetto ad altri tipi di foresta e ne rilasciano in maggiori quantità nell’atmosfera quando vengono distrutte.

La mappa del “flusso di carbonio delle foreste” realizzata dal Global Forest Watch e i relativi risultati pubblicati su Nature Climate Change, mostra le fluttuazioni del carbonio legato alle foreste con dettagli senza precedenti.

 I risultati dicono che ogni anno dal 2001 al 2019, le foreste hanno assorbito collettivamente circa 15,6 miliardi di tonnellate di anidride carbonica dall'atmosfera, mentre la deforestazione, gli incendi e altre problematiche che hanno intaccato le foreste hanno rilasciato una media di 8,1 miliardi di tonnellate di anidride carbonica all'anno. Si stima dunque che le foreste di tutto il mondo assorbano circa 7,6 miliardi di tonnellate di anidride carbonica, agendo come un serbatoio di carbonio netto che corrisponde a circa 1,5 volte le emissioni annuali degli Stati Uniti. 

«Le foreste agiscono come un'autostrada a due corsie nel sistema climatico», ha detto Nancy Harris, che è direttrice della ricerca per il programma Foreste del World Resources Institute (WRI).

«Una visione dettagliata su come si svolgono i due movimenti - emissioni di foreste e rimozioni di foreste – è un aiuto fondamentale nel monitoraggio delle politiche climatiche legate a tale bioma».

Si tratta di un salto di qualità senza precedenti rispetto all'attuale rendicontazione annuale dei dati forestali nazionali, che varia ancora da Paese a Paese nonostante le linee guida standardizzate dall'Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC). Una tale mancanza di uniformità nei dati può portare a un notevole grado di incertezza. Ora non sarà più così e questo grazie alle precise stime della biomassa  raccolte dall’Ice, Cloud e Land Elevation Satellite (ICESat) della NASA, progettato principalmente per tracciare i cambiamenti nella copertura della calotta glaciale, ma in grado di fornire anche dati sulla topografia e sulla vegetazione.

L’assalto a Marte

Mentre tre sonde si stanno approcciando a Marte (Hope degli Emirati arabi, Perseverance degli Stati Uniti e Tianwen-1 della Cina) e mentre l’Europa si prepara a lanciare l’anno prossimo il proprio rover per cercare la vita sotto la superficie marziana, l’Italia (che partecipa anche attivamente alla missione europea) prenderà parte al progetto per realizzare la mappa globale delle riserve di acqua e ghiaccio su Marte.

È stata siglata infatti, una dichiarazione d’intenti tra la NASA e l’Agenzia Spaziale Italiana (ASI), che, insieme all’Agenzia Spaziale Canadese (CSA) e all’Agenzia Spaziale Giapponese (JAXA) si impegnano a consolidare il concept (ossia gli elementi di fattibilità) di una missione robotica per mappare il ghiaccio marziano e che verrà chiamata Mars Ice Mapper.

Mars Ice Mapper mapperà dall’orbita marziana i depositi sub-superficiali di ghiaccio di alcune regioni marziane, rilevandone la posizione, la profondità, l’estensione e l’abbondanza, a medie latitudini, fino a 10 metri di profondità.

La scelta di mappare queste regioni risiede nel fatto che esse potrebbero essere scelte per le future missioni esplorative, incluse quelle con equipaggio.

La sonda fungerà anche da ripetitore orbitale per le comunicazioni di future missioni marziane. La sonda, che trasporta il radar che invierà i segnali sotto la superficie per cercare il ghiaccio, potrebbe anche aiutare ad identificare le proprietà delle polveri e degli strati rocciosi che potrebbero influire sull’atterraggio e sull’accesso al ghiaccio.

«La firma dello Statement of Intent per la missione Mars Ice Mapper - ha dichiarato Raffaele Mugnuolo, capo ufficio Missioni Robotiche di Esplorazione dell’ASI - è il primo passo per l’avvio di una collaborazione innovativa: per la prima volta la realizzazione di una missione di questo genere si basa sull’iniziativa comune di quattro partner come NASA, CSA, JAXA e ASI. La partecipazione alla missione Mars Ice Mapper è un segnale di continuità importante per l’Italia, ed è una opportunità unica per consolidare il nostro ruolo già acquisito in missioni di esplorazione di Marte come ExoMars (che porterà il rover) e Mars Sample Return (che raccoglierà campioni di suolo marziano selezionati e impacchettati da Perseverance e li riporterà a Terra)».

L’accesso al ghiaccio d’acqua rappresenta un obiettivo chiave per condurre indagini scientifiche al fine di comprendere il cambiamento climatico e geologico su Marte e il suo potenziale astrobiologico.

Il ghiaccio è anche una risorsa naturale fondamentale che potrebbe fornire idrogeno e ossigeno per il carburante e per il supporto vitale. Il trasporto di acqua dalla Terra allo spazio profondo è estremamente costoso, quindi, una risorsa locale nello spazio è essenziale per un’esplorazione sostenibile.

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