Nel suo piccolo, anche un mattoncino della Lego può incrinare uno dei capisaldi dell’economia circolare: il riciclo. Siamo tutti convinti che trasformare i rifiuti di plastica in una panchina o in un qualsiasi altro nuovo oggetto rappresenti una soluzione migliore che bruciarli in un inceneritore o gettarli in una discarica.

Ma la decisione che ha preso la società danese getta un’ombra su questa solida convinzione: nel 2021 il produttore di giochi, che sforna annualmente miliardi di pezzi, aveva deciso di creare dei mattoncini in plastica riciclata, utilizzando l’rPet ricavato dalle bottiglie usate.

«Quando abbiamo annunciato un prototipo», spiega la società, «eravamo ottimisti sul suo potenziale, ma dopo due anni di test abbiamo deciso di non andare avanti perché in definitiva non ci avrebbe aiutato a ridurre le emissioni di carbonio».

In altre parole, l’azienda è stata costretta a continuare a produrre i mattoncini in plastica vergine, per la precisione Abs, invece che riciclata, perché il processo di lavorazione di quest’ultima richiedeva ulteriori fasi e quindi un maggiore consumo di energia. Da notare che ci vogliono circa 2 kg di petrolio per produrre 1 kg di Abs.

Anche riciclare inquina

Per la verità è da tempo che sul riciclo della plastica circolano notizie poco rassicuranti. Uno studio di Greenpeace, dal significativo titolo “Forever Toxic”, sostiene che la plastica riciclata contiene sostanze chimiche come ritardanti di fiamma, benzene e altri agenti cancerogeni in livelli più elevati.

E poi inquinanti ambientali come le diossine bromurate e clorurate e numerosi interferenti endocrini. L’organizzazione ambientalista è convinta che la plastica sia intrinsecamente incompatibile con un’economia circolare.

Un gruppo di ricercatori in ingegneria ambientale, provenienti dalle università di Glasgow (Scozia) e Halifax (Canada) hanno invece pubblicato una ricerca sul Journal of Hazardous Materials Advance da cui emerge che da un impianto di riciclo finiscono in acqua grandi quantità di microplastiche.

Il tema dei rifiuti, e in particolare quelli di plastica, è di grande attualità: dal prossimo 20 novembre il parlamento europeo si riunirà in seduta plenaria per discutere la direttiva sugli imballaggi, che rappresentano la maggior parte dei rifiuti.

La Packaging and Packaging Waste Proposal è stata approvata in commissione il 23 ottobre scorso con il voto favorevole di 56 deputati, 23 i contrari e 5 gli astenuti. La direttiva si pone l’obiettivo di ridurre gli imballaggi e l’usa-e-getta, e incentivare il riuso.

In particolare, tagliare i rifiuti di imballaggi in plastica del 10 per cento entro il 2030, del 15 per cento entro il 2035, e del 20 per cento entro il 2040, imponendo inoltre percentuali minime di materiale riciclato.

La proposta europea

Facciamo qualche esempio: a partire dal 1° gennaio 2030 i supermercati dovranno «cercare di dedicare» il 10 per cento della loro superficie di vendita a stazioni di ricarica (refill stations) per prodotti alimentari e non alimentari; gli imballaggi per il trasporto dovranno essere riutilizzabili dal 2030 al 90 per cento; sempre dal 2030 chi vende bevande da asporto dovrà offrire anche l’opzione dell’imballaggio riutilizzabile; verranno vietati i film di plastica monouso per raggruppare altri imballaggi, inclusi quelli per valigie e borse negli aeroporti; chi offre bibite o cibi da asporto dovrà consentire ai consumatori di utilizzare i propri contenitori e dovrà offrire a questi ultimi cibo e bevande «a un prezzo inferiore e a condizioni non meno favorevoli».

Saranno inoltre vietati imballaggi monouso per condimenti, conserve, salse, panna da caffè e zucchero nel settore alberghiero, della ristorazione, e del catering, comprese bustine, vaschette, vassoi, scatole. Dal 2027 vietati anche gli imballaggi di plastica monouso per prodotti ortofrutticoli freschi per meno di un chilogrammo di frutta e verdura: reti, sacchetti, vassoi, contenitori.

Sono previste esenzioni nel caso di una necessità dimostrata «di evitare la perdita di acqua, l’inverdimento o la perdita di turgore, i rischi microbiologici o gli shock fisici». Dal 1° gennaio 2030 il 20 per cento della quota di bevande vendute confezionate (in bottiglia o lattina) dovrà utilizzare imballaggi da usare di nuovo: in pratica, su 100 bottiglie a scaffale 20 dovranno far parte di un circuito di riutilizzo.

Inoltre la Commissione vuole vietare l’uso di Pfas e di “bisfenolo A”, sostanze pericolose per la salute che sono ampiamente utilizzate per rendere ignifughi o impermeabili gli imballaggi, in particolare quelli di carta e cartone.

La posizione italiana

La proposta, in parte già corretta, è fortemente osteggiata dall’Italia. La maggioranza di governo, ma anche il Pd, si allinea alle posizioni dell’industria, del commercio e dell’agricoltura, tutti preoccupati che l’attacco agli imballaggi rappresenti un grave danno per l’economia italiana.

L’ex presidente di Confindustria e amministratore delegato di Seda International Packaging Group, Antonio D’Amato, ha dichiarato che «la Commissione nega tutte le evidenze scientifiche sul migliore impatto ambientale del packaging monouso riciclabile», visto che il riuso «comporta un aumento importante di emissioni di CO2 e quadruplica il consumo d’acqua».

Anche i produttori di bioplastica sono preoccupati per i limiti che verrebbero imposti ai loro materiali compostabili.

In giugno le commissioni Ambiente e Attività produttive della Camera hanno bocciato la misura sostenendo questa tesi: siamo già molto efficienti nel riciclo (nel 2022 l’Italia ha avviato a riciclo il 71,5 per cento dei rifiuti di imballaggio), e con questa direttiva che spinge sul riutilizzo rischiamo di mettere in crisi un settore formato da 4.800 imprese con 236mila occupati.

In settembre Stella Kyriakidou, commissaria alla Salute e Sicurezza alimentare, ha risposto al presidente della Camera Lorenzo Fontana per rassicurare i deputati italiani. Ha spiegato che si stima che i rifiuti di imballaggi cresceranno del 19 per cento entro il 2030 e «le infrastrutture disponibili, anche in Italia, non saranno sufficienti a trattare» tali quantità.

La proposta di regolamento, scrive la commissaria, «non intende sostituire le soluzioni tecnologiche esistenti con altre. Tuttavia, data la crescita passata e prevista dei rifiuti di imballaggio nell’Ue, sono necessarie misure per affrontare il problema, che vadano oltre il riciclaggio».

Nella proposta si insiste nella necessità di installare i sistemi di deposito e restituzione di bottiglie e lattine, molto comuni nel Nord Europa, ma è un obbligo, dice Kyriakidou, da cui Paesi come l’Italia, con alti livelli di raccolta differenziata, possono essere esentati.

Roma non ha ottenuto molto, anche per colpa del suo atteggiamento ostile per principio a qualsiasi politica green europea: «Invece di spiegare bene come l’Italia intende raggiungere gli obiettivi, ovviamente condivisibili, indicati dalla Commissione», afferma Andrea Minutolo di Legambiente, «l’Italia ha fatto di tutta l’erba un fascio, senza valorizzare i punti di forza del sistema della raccolta differenziata e del riciclo, dove in effetti siamo forti. Dire “no” a prescindere ci ha fatto perdere tempo, trasforma le nostre obiezioni in un rumore di fondo poco ascoltato a Bruxelles».

Resta però il problema della plastica, che non è facile da riciclare e che, come sembra indicare il caso della Lego, anche riciclata rappresenta un problema. L’Italia, attraverso il consorzio Corepla, riesce ad avviare al riciclo il 56 per cento degli imballaggi in plastica, il resto finisce nei termovalorizzatori (437.854 tonnellate nel 2022) o nelle discariche (8114.616 tonnellate).

«Immaginare una società senza plastica è difficile», ammette Giuseppe Ungherese di Greenpeace, «ma anche il riciclo ha un costo e consuma energia. Quello che dobbiamo fare è ridurre gli imballaggi e fare durare il più possibile i materiali». Un tema che sarà discusso a Nairobi dal 13 novembre, nel negoziato promosso dalle Nazioni unite per un trattato globale sulla plastica. Grandi attese e molti timori.

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