L’opposizione al governo Meloni avrebbe in mano un’ottima carta da giocare per far uscire dall’angolo le politiche green nel dibattito italiano e giocare in attacco in vista delle prossime elezioni europee. Perché qual è l’accusa che viene fatta, su cui risulta più debole la transizione ecologica?

Quella per cui è un costo per gli italiani, che sarà pagato soprattutto dai più poveri. Che non vedranno benefici e si troveranno con rincari delle bollette, con auto e caldaie fuorilegge, mentre quelle belle immagini sui cartelloni pubblicitari di auto elettriche e pannelli solari saranno appannaggio solo dei più ricchi.

La vera transizione

Nel caos della gestione del Pnrr il governo è riuscito ad alzare un tale polverone che nessuno sa più cosa verrà realizzato e se sarà utile al paese. L’obiettivo politico è stato pienamente raggiunto, perché nessuno ricorda più gli obiettivi che erano al centro del programma europeo straordinario per far ripartire l’economia dopo il Covid attraverso una transizione ecologica e digitale che riducesse le disuguaglianze.

Dopo i tagli del ministro Raffaele Fitto, pochi hanno capito se gli investimenti che le città sognavano da anni si realizzeranno davvero e se sarà davvero possibile realizzare le nuove moderne linee di tram che Bologna, Padova, Firenze, Palermo e Roma hanno messo in cantiere. O i progetti di riqualificazione degli alloggi di edilizia popolare nelle città, i boschi urbani con milioni di alberi o i nuovi grandi parchi, come a Bari sul mare in uno dei luoghi simbolo del degrado delle periferie italiane.

Non solo questi progetti stanno andando avanti, ma è importante parlarne per far vedere concretamente cosa vuol dire la transizione green, ed è ora il momento di progettare il post 2026. Quando finirà una fase senza precedenti di attenzione alle periferie, di recupero di ritardi e problemi, di speranza per tante persone di vedere un miglioramento della vita quotidiana.

Nei comuni già si fanno le stime di quanto sarà complicato far circolare i nuovi autobus elettrici e i tram con una frequenza decente, di non fermare i cantieri della riqualificazione per i casermoni di edilizia pubblica che hanno perso il treno del Pnrr.

Il prossimo chissà quando passerà, anche perché dal ministero che se ne dovrebbe occupare, quello di Matteo Salvini, tutto tace a parte i quotidiani comunicati sul Ponte sullo Stretto di Messina. Eppure, non è vero che il futuro è segnato perchè una risposta a queste domande esiste.

Dal 2026, infatti, entra in vigore il Social Climate Fund, una delle riforme più importanti del Green Deal europeo, che destina risorse per interventi di riduzione dei consumi energetici degli edifici e di mobilità sostenibile a favore proprio dei cittadini più vulnerabili. Per l’Italia si stima che saranno disponibili oltre due miliardi di euro all’anno, che provengono dalla riforma dell’Ets, il sistema di scambio delle quote di emissioni di gas a effetto serra.

Una transizione giusta è possibile

È importante parlare di questo fondo, non solo perché il 2026 per la programmazione pubblica è domani, ma perché è un tema da portare nella campagna elettorale, su cui costruire alleanze e far crescere la pressione nei confronti del governo.

Per chiedere conto di come il governo intende organizzare la selezione delle priorità sociali e ambientali, nel Piano che dovrà presentare il prossimo anno, sfruttando l’attenzione che si avrà nei prossimi mesi per discuterne, elaborare e condividere delle proposte su cui girare nelle città e nei territori.

Per ora tutto tace, ed è evidente che Meloni o Salvini non hanno alcun interesse ad alzare l’attenzione, perché stanno impostando la campagna elettorale proprio su un’idea di Europa che nei prossimi cinque anni dovrà cancellare quanto fatto fino ad ora per la transizione green.

Il paradosso sarebbe lasciare alla propaganda della destra di attaccare sugli impatti sociali delle politiche verdi, quando proprio il Social Climate Fund dimostra che lo scontro è tra chi si batte per dare una speranza concreta di cambiamento ai cittadini e chi pensa che l’Europa non dovrebbe occuparsi della crisi climatica.

Il fondo non è la risposta a tutti i problemi, ma è un primo passo nella direzione giusta che nella prossima legislatura dovrà essere ampliato e rafforzato. Intanto, proviamo a fare degli esempi concreti degli interventi che si potrebbero realizzare con quelle risorse.

Effetti pratici

Oggi per i comuni è impossibile aumentare la frequenza del trasporto pubblico, far circolare più autobus o carrozze della metropolitana per migliorare l’efficienza dei servizi. A meno che non si triplichino i prezzi dei biglietti, ma con tutte le conseguenze che si possono immaginare.

Ecco, con un miliardo di euro all’anno, diventerebbe possibile aumentare la frequenza del servizio, migliorare l’integrazione dell’offerta, programmare nuovi investimenti a partire dalle città metropolitane più trafficate e inquinate.

E così permettere a tante persone di disporre di un servizio finalmente competitivo e di lasciare l’auto a casa, risparmiando migliaia di euro all’anno. Un altro esempio di attualità sono le vituperate case green. Dove l’accusa è di obbligare le famiglie a realizzare interventi di riqualificazione delle abitazioni che riducono i consumi.

Perché come possono farlo i più poveri e chi paga? Il Social Climate Fund è la risposta a questa accusa – peraltro falsa, perché non esiste alcun obbligo ma solo la richiesta ai paesi di definire piani di intervento. Con un miliardo di euro all’anno si potrebbe riqualificare l’intero patrimonio di alloggi di edilizia popolare, dove vivono le famiglie più povere, e crearne di nuovi per fare fronte alla drammatica crisi degli sfratti nelle città. Eliminando del tutto l’utilizzo del gas e con consumi bassissimi soddisfatti da impianti solari e comunità energetiche.

E poi tanto altro di utile che si potrebbe immaginare con le risorse del Fondo, a partire dalle periferie dove oggi è più difficile trovare speranza nel futuro e dove è quanto mai investire nel welfare e in progetti integrati dove utilizzare la chiave green per aiutare i più fragili. Molte buone idee in questa direzione si possono trovare nel libro appena pubblicato da Donzelli con le proposte del Forum Disuguaglianze e Diversità, dal titolo Quale Europa.

Risorse europee

Il rischio che non possiamo permetterci è che il nostro paese sprechi anche questa opportunità, che non sia in grado di valorizzare quanto di positivo l’Europa ci mette a disposizione. Per questo occorre parlarne, organizzare appuntamenti pubblici, coinvolgere imprese e sindacati, ma anche i tanti sindaci di centrodestra che sono i primi a sapere che ai loro cittadini interessa avere quartieri meno inquinati e trafficati, più vivibili.

È vero che sono previsti paletti da Bruxelles su cosa si può finanziare e cosa no, ma l’esperienza della disastrosa revisione del Pnrr deve insegnare qualcosa. Anche qui il rischio è che invece di finanziare interventi utili a ridurre in modo strutturale i consumi di gas, e quindi emissioni e inquinamento, con benefici per cittadini e imprese, si finanzino infrastrutture per trasportare metano come sta avvenendo con RepowerEu.

Oppure che quelle risorse siano usate per offrire sconti ai più poveri sulle bollette o nuovi bonus per comprare auto o caldaie. Ossia la ricetta peggiore, perché non interviene sulle cause ma si limita ad allievare temporaneamente la dipendenza. In questi mesi la destra in tutta Europa è riuscita a far passare l’idea che i provvedimenti approvati sulla casa, i trasporti, l’agricoltura sono contro gli interessi di ciascuno di noi e degli stati.

L’unico modo per rispondere a una campagna che usa argomentazioni false e slogan è di spostare il punto del confronto. Su come si vogliono risolvere i problemi, su quali sono le idee in campo per salvaguardare il lavoro e la qualità della vita, la salute delle persone qui in Europa e non solo. Perché il futuro del Pianeta ci riguarda tutti e non è vero che il risultato elettorale e il destino politico del vecchio continente sono già segnati.

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